La guerra che verrà non è la prima
L’arte e il sonno della ragione
Alla fine di un lungo percorso, denso di stimoli, mi prende e mi sorprende la sensazione di aver visto poche immagini dirette dell’orrore della guerra, e mi pare di vedere meglio il senso, l’intento di questa mostra (al Mart, fino al 20 settembre 2015).
Muovendosi in un continuo scambio tra documento e opera d’arte, e soprattutto tra passato e presente, essa tratta quel groviglio di temi che chiamiamo Grande Guerra come qualcosa che continua a interrogarci, a farci riflettere sulle guerre di oggi, di questi giorni nostri in cui nessuno può illudersi di essere escluso dai fronti aperti, e in definitiva sul fatto che, nonostante le guerre del ‘900 e l’atomica e tutto il resto, la guerra non è ancora diventata un tabù per la nostra specie.
Lo fa scegliendo apposta di non puntare sull’impatto emotivo del reportage iperrealistico, l’esibizione della crudeltà e della macelleria, di cui è fatta anche la guerra tecnologica, ma, come dice Cristiana Collu che ha diretto questo progetto, “senza precipitare nella banalità del male e senza vuoti di memoria, senza rimozione (...) ma con lo sguardo verso l’aperto che si leva dall’orrore umano che non si può dire, che non si può rappresentare”.
Gli artisti di oggi qui convocati hanno uno sguardo immancabilmente antimilitarista, in contrasto stridente con quello dei futuristi del primo ‘900, accaniti fautori dell’entrata in guerra dell’Italia, in base a un’idea della guerra che il loro ideologo Marinetti definiva “sola igiene del mondo”. Andarono anche al fronte; qualcuno di loro vi perse la vita. Depero rimase al fronte per un mese, venendone poi allontanato per inabilità fisica a sostenere le condizioni di trincea; il che non gli impedì di creare, oltre alle numerose piccole opere di entusiasmo bellico che qui vediamo contemporanee al conflitto, un grande vivacissimo arazzo, una decina d’anni dopo, che intitola senza imbarazzo “Guerra-festa”.
Vediamo quadri anche meno militanti, più astratti, di altri esponenti del movimento (Balla, Dudreville) che funzionano però invariabilmente nella sola dimensione energetico-spettacolare.
Una reazione a questo atteggiamento venne da altri artisti, soprattutto dopo il conflitto, di area espressionista, come nel caso di Max Beckmann e del nostro Guido Polo, oppure da Arturo Martini (ma ormai nel 1934): opere che fanno propria la tragedia di chi si trovò nelle trincee d’Europa, esperienze estreme di cui sono rimaste testimonianze sconvolgenti nei diari e nelle lettere dei soldati (una breve antologia di questi scritti è proposta nel catalogo da Fabrizio Rasera, accanto a diversi altri preziosi contributi).
Raramente, del resto, troveremo nei ritratti e nelle scene di guerra realizzati dai pittori soldati gli aspetti più desolanti che leggiamo in quelle testimonianze. La censura e la macchina propagandistica erano, in ogni paese belligerante, continuamente all’opera. L’uso sistematico e di massa della propaganda illustrata (manifesti, cartoline da e per il fronte, opuscoli, riviste satiriche, riviste per bambini) era una delle armi fondamentali del conflitto.
Qui però non si è voluto rubare il ruolo al Museo della Guerra, piuttosto far leva in un certo modo sul quel deposito di memoria (il suo provveditore Camillo Zadra fa parte del comitato dei curatori del progetto), e i documenti sono prelievi che servono talvolta anche solo a evocare e sottolineare un aspetto saliente. Così, ad esempio, la nera massa ferrosa di una porta del forte Pozzacchio diventa una specie di monumento alla cecità della fabbrica mortifera. Oppure, ordinati nelle teche di vetro, i foglietti a stampa dei morti in battaglia, i cosiddetti “luttini”, con la loro dedica lapidaria, sono come la cifra condensata degli sterminati cimiteri di soldati, noti e ignoti.
Gli artisti di oggi, come accennavo, assumono un ruolo di intelligenza critica e di denuncia, nei modi dell’azione poetica. Cito solo alcuni esempi che mi hanno colpito per quella capacità di interrogare, prendere posizione, rappresentare l’irrapresentabile attraverso immagini che - servendosi talvolta anche di oggetti - hanno una forza che supera la prima evidenza e la prima emozione estetica. È il caso di Berlinde de Bruyeckere, che ci parla del massacro attraverso le carcasse dei muli, ricucendone la pelle come in una sommaria impagliatura, priva di occhi. Di Paolo Ventura, il cui reggimento di soldatini di carta man mano affonda sotto terra: non più di così contava il “materiale umano” sul cinico scacchiere degli strateghi militari. Di Fabio Mauri, che allestisce un sarcastico “pic nic” arredato con bossoli ed altri oggetti militari, un modo di parlare del contrasto contemporaneo fra i tranquilli salotti delle nostre case e gli orrori che vi si affacciano dalla tv, di cui parlano con la fotografia anche altri autori, come Martha Rosler. Di Sandow Birk, che usando provocatoriamente un antico linguaggio xilografico, e memore di Goya, denuncia la guerra mossa dagli Usa in Iraq e le torture ad Abu Ghraib. Di Orlan, che ribalta al maschile il famoso pube dipinto da Courbet: se quello era “l’origine della vita”, questo diventa “l’origine della guerra”.