Dare sicurezza per avere sicurezza
Certo, i tempi non sono propizi, ma per evitare situazioni esplosive è indispensabile ripensare la politica nei confronti dell’immigrazione.
Il 19 giugno si è svolto a Villa S. Ignazio, istituzione notoriamente sensibile a questi temi, il quarto Convegno “Sentire Sicurezza”: sulla sicurezza in Italia e sulla sua percezione, due cose notoriamente diverse, grazie alla solerte attività di tanti mestatori di professione. È stato un pomeriggio intenso, che ha visto la partecipazione di oltre un centinaio di persone, con interventi tutt’altro che rituali, dall’analitica relazione della prof. Paola Barretta, che con Ilvo Diamanti contribuisce a stendere ogni anno il “Rapporto sulla Sicurezza in Italia e in Europa”, allo studio, corredato da una mostra fotografica, sull’emblematica situazione del quartiere trentino della Portela, su cui ci ripromettiamo di ritornare in un prossimo numero.
In queste pagine sintetizziamo invece l’intervento di mons. Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes (organismo della Conferenza Episcopale Italiana), straordinariamente interessante per la ricchezza di dati sull’immigrazione, che, illustrati attraverso un rigoroso ragionamento interpretativo, possono fare chiarezza su un tema in cui sembra che in tanti stiano perdendo la bussola
Nel 1990 erano 350.000, oggi sono 5 milioni, provenienti da quasi duecento paesi diversi (è un primato, una varietà che non si riscontra da nessun’altra parte d’Europa); più o meno sono le stesse cifre riguardanti le persone con cittadinanza italiana sparse qua e là per il mondo. Tanto che si è tentati di pensare, con un qualche orgoglio, che alcuni siano venuti da noi anche per aver conosciuto, nella loro patria, degli italiani. Ma se pure così fosse, fanno presto a pentirsi: dei 172.000 migranti arrivati lo scorso anno via mare, due terzi se ne sono andati appena hanno potuto. Per noi si trattava di accogliere decorosamente una persona ogni 1.000 residenti, un compito forse non impossibile per un paese che ogni anno sa ospitare 45 milioni di turisti. Non ci siamo riusciti.
Per farlo, occorreva che la politica si rendesse conto dei mutamenti che già da tempo sono intervenuti nella nostra società e si muovesse di conseguenza. Così non è stato.
Mons. Perego offre un primo, piccolo ma significativo esempio di questa incapacità: “Nella mia Cremona il mondo agricolo aveva manifestato il bisogno di un forte numero di lavoratori stagionali per la raccolta dei kiwi; ne sono stati concessi in misura talmente irrisoria, che i coltivatori hanno preferito lasciare i frutti a marcire sulle piante, con la conseguente perdita di una fetta di mercato a favore della Tunisia”.
Molto è cambiato nella società italiana, a cominciare, appunto, dal lavoro, dove da anni alcuni comparti non possono fare a meno dei migranti.
Nei servizi alla persona (un milione di badanti), perché ogni anno ci ritroviamo con 150.000 nuovi anziani non autosufficienti, due terzi dei quali non possono essere accolti nelle RSA.
Nel turismo, dove un terzo del personale stagionale è rappresentato da stranieri. E anche in certi settori industriali (i più duri e faticosi, ovviamente, a cominciare dall’edilizia) la loro opera è fondamentale. “A Montecchio, nel vicentino - racconta ancora mons. Perego - a lavorare nelle concerie erano presenti quasi soltanto cittadini del Bangladesh, che però ad un certo punto hanno pensato di poter vivere più decentemente in Inghilterra e se ne sono andati, mettendo in crisi il settore, perché i nostri giovani quel lavoro non vogliono più farlo”.
Poi ci sono, sempre più numerose, le imprese gestite da immigrati, che hanno dimostrato una particolare capacità di resistere ai morsi della crisi, riuscendo a crescere del 4%, mentre il dato complessivo registrava un calo dell’11%. “L’unica vera cooperazione internazionale la fanno proprio loro, con 5 miliardi annui di redditi in buona parte inviati in patria, mentre la cooperazione ‘ufficiale’ si traduce soprattutto in un sostegno alle nostre grandi aziende, a cui vanno 100 dei 125 milioni destinati alla cooperazione internazionale”. Per non parlare di certi disastri prodotti dall’operato delle multinazionali in quei paesi: “In Ecuador recentemente ho visto chiudere una scuola perché la Texaco aveva costruito nei pressi una raffineria, e non si riusciva più a respirare”. E potremmo anche citare quanto succede in Mozambico (i nostri lettori ne sanno qualcosa dai racconti di padre Andrea Facchetti pubblicati su QT), con operazioni di sedicente sviluppo agricolo che si traducono in svendita di territori ed espulsione di abitanti per lasciare spazio a monoculture di vario tipo. Non c’è da meravigliarsi, poi, se la disperazione spinge queste persone verso il ricco Occidente.
Sentirsi parte di una comunità
Nell’ultimo quarto di secolo è poi profondamente mutato il panorama delle famiglie, con 1.850.000 nuovi nuclei - ricongiunti o formatisi - 450.000 dei quali misti, o, come si dice, misti-misti (composti cioè da due stranieri di nazionalità diversa), con un tasso di natalità doppio rispetto alle coppie italiane e da cui provengono 2 nuovi nati su 10.
Di questi 800.000 bambini, metà sono nati in Italia, parlano la nostra lingua e frequentano le nostre scuole, che però non hanno le risorse necessarie per una efficace azione di mediazione culturale, con conseguenti rischi di abbandono; e neppure gli si concede la cittadinanza, che viene invece garantita a quegli abitanti dell’Argentina o del Brasile che possono vantare un trisavolo italiano!
I genitori di questi bambini lavorano e pagano le tasse in Italia, ma non hanno una rappresentanza politica. “Quando a fine Ottocento - ricorda il direttore di “Migrantes” - tanti lavoratori italiani andarono in Romania a costruire ferrovie e lavorare in miniera, il re Carlo I diede loro il diritto di eleggere un parlamentare. Qui, cent’anni più tardi, quando va bene, ai migranti si concede un ‘consigliere comunale aggiunto’, senza diritto di voto. E per i giovani stranieri, niente servizio civile, che sarebbe proprio quello di cui avrebbero bisogno per sentirsi parte della nostra comunità, oltre che per godere di un piccolo reddito”.
Il punto è che se si vuole sicurezza, bisogna dare sicurezza. Ma invece di un “accompagnamento” verso una cittadinanza consapevole, ci sono le tribolazioni per i permessi di soggiorno, uno sfruttamento dei lavoratori raramente contrastato, il fatto che a due anni dalla regolarizzazione due stranieri su tre ancora non hanno un medico di famiglia... E la situazione abitativa sappiamo qual è.
La casa, la scuola, la salute, il lavoro: è l’intervento della politica su queste tematiche, il soddisfacimento di questi bisogni che dà sicurezza a chi viene da fuori, che fa sentire parte di una comunità, e quindi tiene lontano da quei comportamenti di chiusura o addirittura devianti che possono spaventare fino a produrre razzismo.
In tempi normali le cifre e le considerazioni che abbiamo esposto dovrebbero essere sufficienti a provocare un ripensamento delle politiche sull’immigrazione.
Ma questi che viviamo, evidentemente, non sono tempi normali. Sono tempi di sindaci sceriffi, nei quali è più facile e politicamente conveniente concentrarsi sui 17.000 stranieri detenuti nelle nostre carceri che sui 5 milioni che vivono accanto a noi.