Yemen, nuovo teatro dello scontro Iran-Arabia Saudita?
Come le complesse eredità del passato e l’accordo nucleare USA-Iran influenzano gli schieramenti in questa nuova area di crisi
All’improvviso si riaffaccia sulla scena internazionale la questione yemenita come nuovo teatro di scontro-confronto tra Arabia Saudita e Iran. Per capire bene la questione, occorre fare un salto indietro di almeno 1400 anni allorché, in quello che era stato il mitico Regno di Saba e per i Romani la cosiddetta Arabia Felix, si affacciarono per la prima volta i persiani Sassanidi (570 d.C.) annettendo il territorio al loro impero. In seguito all’affermazione dell’Islam, dalla seconda metà del VII secolo lo Yemen entra nel Califfato Omayyade di Damasco prima e, dal 750 in poi, nel successivo Califfato Abbaside di Baghdad.
Dopo la fine di quest’ultimo (metà del XIII sec.) lo Yemen sarà sempre nell’orbita dei signori dell’Egitto (i Mamelucchi fino al 1500 circa e quindi l’Impero Ottomano dal XVI secolo in poi). Insomma si tratta di un territorio da sempre conteso tra arabi, persiani e, più tardi, egiziani e turchi ottomani. Ma, per via della sua conformazione geografica montagnosa, lo Yemen fu anche sempre territorio ideale di rifugio per sette eretiche estremiste (sciite e non solo), perseguitate dai califfati sunniti. È qui nello Yemen che storicamente trova il suo insediamento una delle tre branche storiche dello sciismo medievale, quella estremista zaydita (le altre due essendo quella duodecimana o “sciismo dei 12 imam”, che domina in Iran e Iraq, e quella ismailita - cui apparteneva anche il famoso Agha Khan della Costa Smeralda - che oggi ha i suoi principali insediamenti in India e Asia Centrale).
Fino al 1962, l’imam zaydita dello Yemen era anche il capo dello stato, in quella che è stata forse la più longeva teocrazia della storia del pianeta; in quell’anno l’imam fu defenestrato dalla rivoluzione socialista che instaurò in Yemen una repubblica “democratica” di stile sovietico, immediatamente innescando una guerra civile. Fu l’Egitto socialista di Nasser a intervenire in appoggio alla neonata repubblica minacciata dai “contro-rivoluzionari”, all’epoca foraggiati dall’Arabia Saudita, l’acerrimo nemico dell’Egitto nasseriano. Questa spedizione militare yemenita costò moltissimo all’Egitto, che ne uscì con le finanze disastrate; quanto allo Yemen, si stabilì alla fine un compromesso de facto, con una Repubblica democratica nel Sud Yemen (socialista) con capitale Aden, già base della Royal Navy britannica fino al 1967, e una repubblica del Nord Yemen con capitale a Sana’a (città dichiarata patrimonio mondiale dall’Unesco) sostenuta dall’Occidente e dall’Arabia Saudita. Attraverso ulteriori e complicate vicissitudini, si giunse infine alla riunificazione del paese nel 1990.
Ma nei decenni seguenti, anche grazie alla massiccia propaganda religiosa sunnita-wahhabita finanziata dai Sauditi, l’equilibrio confessionale verrà profondamente mutato e la componente sciita zaydita si sentirà seriamente minacciata dalla crescente comunità sunnita, elemento che è tra le concause della instabilità della regione. Con la primavera araba nel 2012 la situazione precipita, il presidente Saleh si dimette e il suo successore al-Hadi non controlla a lungo la situazione. Agli inizi del 2015 le milizie degli Huti, sciiti zayditi, ne approfittano per lanciare una offensiva in grande stile e riconquistare la capitale Sana’a ristabilendo l’egemonia zaydita sul paese. Il presidente Al-Hadi si rifugia ad Aden verso la quale gli zayditi Huti avanzano minacciosi. E siamo così arrivati alla cronaca degli ultimi giorni: l’Arabia Saudita promuove a tempi di record una coalizione sunnita, con l’Egitto del generale al-Sissi e la Turchia di Erdogan in testa, per difendere Aden e respingere i “ribelli” Huti zayditi, accusati di essere sostenuti dalla grande potenza sciita dell’area, l’Iran di Ruhani.
Lo Yemen, che nel caos degli anni recenti ha tra l’altro ospitato basi clandestine di al-Qa’eda, diventa dunque un nuovo momento della secolare sfida tra sciiti e sunniti, dietro cui si cela una evidente lotta tra le potenze egemoni dell’area per estendere la propria influenza geopolitica. C’è una macroscopica differenza però con gli anni ‘60-’70: allora l’Egitto di Nasser e l’Arabia Saudita erano su fronti opposti, mentre oggi sono dalla stessa parte. L’Arabia Saudita in altre parole è riuscita nel miracolo politico-diplomatico di unificare il litigioso campo sunnita, tanto più che è riuscita a portare dalla sua parte anche la Turchia di Erdogan, che nonostante le divergenze ha avuto finora rapporti di buon vicinato con l’Iran sciita.
Almeno due domande sorgono spontanee: perché ci sono voluti solo pochi giorni per allestire la coalizione arabo-sunnita e organizzare una spedizione contro gli Huti zayditi in Yemen, mentre gli stessi stati sunniti latitano o faticano comunque a fare altrettanto per lottare contro l’ISIS dei tagliagole?
La seconda domanda è: gli USA quale ruolo stanno giocando nell’area e, eventualmente, potrebbero bloccare l’accordo imminente sul nucleare con l’Iran col pretesto del suo intervento nello Yemen?
Cominciamo da quest’ultima domanda. L’improvviso precipitare degli eventi in Yemen, con l’intervento militare dell’Arabia Saudita, ha tutta l’aria di una grande trappola in cui l’Iran degli ayatollah probabilmente si guarderà bene dal cadere: infatti se l’Iran passasse ad un impegno militare diretto a fianco degli Huti zayditi, Arabia Saudita (e Israele) avrebbero buon gioco a denunciare la sua inaffidabilità per tentare in extremis di bloccare l’accordo USA-Iran sul nucleare. L’Iran certamente ha mire espansionistiche sul Golfo, ma a prima vista è evidente che nello Yemen il gioco non vale la candela. C’è da scommettere tuttavia che la coalizione sunnita farà di tutto per dimostrare il suo coinvolgimento anche indiretto nel “ribellismo” degli Huti zayditi e per mettere così il bastone tra le ruote all’accordo tra Obama e Ruhani.
La prima domanda richiede una risposta forse più complessa. Gli Huti zayditi dello Yemen sono una milizia armata, non certo dei terroristi, il cui scopo è eminentemente politico: ristabilire sullo Yemen la storica egemonia sciita, messa in crisi dall’attivismo sunnita-wahhabita finanziato dai Sauditi. A differenza delle milizie dell’ISIS - ideologicamente affini al fondamentalismo wahhabita-saudita e secondo molti alimentate da Ryad, almeno all’inizio, in funzione anti-Assad e anti-Iran - gli Huti non hanno obiettivi esterni allo Yemen. L’intervento saudita in Yemen non è dunque una “lotta al terrorismo”, ma va inquadrato nel confronto geopolitico con l’Iran, a torto o a ragione percepito come minaccia incombente sul Golfo e le vie del petrolio. L’Iran (supportato dalla Russia di Putin) ha difeso l’alleato Assad in Siria, appartenente a una setta sciita (alawita), dai movimenti ribelli appoggiati da sauditi e turchi che hanno ridotto quel paese a un cumulo di macerie; e certamente l’Iran ha esteso la sua influenza al Libano, stato pluriconfessionale ma egemonizzato dalla milizia sciita di Hezbollah. La lotta all’ISIS, sostenuta con decisione da Obama, ha fornito poi all’Iran l’occasione d’oro per intervenire in forze nell’Iraq con armi e truppe speciali che guidano l’esercito irakeno nella riconquista del territorio ancora in mano al “califfato islamico”.
Tutti questi elementi di attivismo iraniano nell’area hanno fortemente allarmato le potenze sunnite, che ora reagiscono creando un’alleanza politico-militare che fa il suo debutto nello Yemen. L’arco della “mezzaluna sciita” che da Teheran si stende fino al Mediterraneo siro-libanese - così paventano Arabi, Turchi e Egiziani - potrebbe essere rafforzato da una ulteriore proiezione iraniana verso il Golfo, di cui uno Yemen in mano agli sciiti zayditi sarebbe la prova evidente.
Interessante è vedere come si stia evolvendo la posizione degli USA sullo Yemen. Al momento in cui scrivo (28 marzo) gli USA appoggiano la coalizione sunnita, almeno sul piano della logistica e dell’intelligence. Ma perché Obama - ci si chiede - che ha un bisogno urgente di chiudere positivamente l’accordo sul nucleare con l’Iran e garantirsi il suo appoggio indispensabile nella lotta all’ISIS in Siria e Iraq, ora dovrebbe fare uno sgarbo proprio agli iraniani appoggiando la coalizione sunnita nella spedizione in Yemen? Obama ha il problema di rispondere all’ agguerrita opposizione interna repubblicana (filo israeliana e filo saudita). Insomma, a Obama probabilmente non pare vero di poter mostrare urbi et orbi che la sua non è una politica pregiudizialmente filo-iraniana. Ma questo non è affatto un dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Nella sostanza siamo di fronte a un evidente profondo ri-orientamento delle alleanze nell’area: da una politica di spesso acritico allineamento con arabi sauditi e israeliani, Obama passa a una politica più flessibile, che cerca gli alleati nell’area di volta in volta secondo gli interessi in gioco. Oggi agli USA serve più l’Iran che non l’ambigua Arabia Saudita o l’incontrollabile Israele. Lo Yemen, che l’Arabia Saudita considera il suo “cortile di casa”, verrà con ogni probabilità normalizzato grazie agli aiuti USA e alla prudenza dell’Iran, che non cadrà nella trappola di un intervento diretto; l’accordo nucleare si farà, in barba a sauditi e israeliani, e Teheran, avendo dato la prova richiesta di moderazione e ragionevolezza, otterrà la sospirata cessazione delle sanzioni. Siria, Iraq e Yemen per anni saranno terre di guerre civili e di massacri, ma la Real Politik dei grandi attori internazionali, come sempre ha fatto, girerà la testa da un’altra parte.