Messico violento
Un cocktail letale, fatto di neoliberismo, corruzione, narcotraffico, impunità. Da “L’Altrapagina”, mensile di Città di Castello.
La giustizia messicana ha identificato i responsabili del massacro dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa scomparsi il 26 settembre nella città di Iguala (stato di Guerrero, 140.000 abitanti a 200 km da Città del Messico): sono tre sicari di Guerreros Unidos, il cartello responsabile del traffico di eroina e marijuana verso Chicago. Secondo i tribunali, “intendevano difendere il loro territorio”. Ma la causa profonda di queste e di altre migliaia di morti e scomparsi sta nella decomposizione istituzionale indotta dal neoliberismo in salsa messicana che miscela corruzione, narcotraffico e impunità.
I 43 studenti raccoglievano fondi per la loro scuola. Sapevano di non essere benvenuti poiché, nel giugno 2013, insieme a diversi dirigenti del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD), avevano accusato il sindaco di Iguala della morte sotto tortura di un dirigente contadino e occupato il palazzo comunale per alcuni giorni. Secondo i tribunali, sicari e poliziotti, che “ad Iguala vivono in armoniosa simbiosi”, temevano che i giovani avrebbero ripetuto le loro manifestazioni, stavolta non contro il sindaco ma contro la moglie, María de los Ángeles Pineda Villa, capo delle finanze della sezione locale del cartello (i vincoli tra la donna e il narcotraffico sono stati provati) e candidata a sindaco alle elezioni del 2015. Da questo incarico, secondo i collaboratori di giustizia, intendeva organizzare le attività del cartello su scala nazionale.
Quel 26 settembre era in programma il lancio della sua candidatura. Spaventato davanti alla possibilità che l’irruzione degli studenti rovinasse la festa, il marito sindaco ordinava alla polizia di arrestarli, per poi consegnarli ai sicari di Guerreros Unidos; e dal carcere il capo dell’organizzazione criminale, Sidronio Casarrubias, ha confermato.
Il costo della corruzione
Lo Stato di Guerrero vive un boom dell’oro e del turismo, ma il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il narcotraffico fiorisce. Come ovunque, dove attecchisce il narcotraffico si espande la violenza. Segnala il Rapporto Mondiale sulle droghe dell’Onu: “Nel 2012 si sono registrate almeno 183.000 morti violente nei territori del narcotraffico” e il Messico è in testa a questa contabilità: solo sotto il governo di Felipe Calderón (2006-2012) sono stati registrati 70.000 morti e 25.000 scomparsi. E nei primi 20 mesi dell’attuale governo, presieduto dall’ex mezzobusto televisivo Enrique Peña Nieto, gli scomparsi sono stati oltre 10.000.
Per dare a Cesare ciò che è di Cesare, va detto che il narcotraffico ha solo amplificato il problema. La violenza è tra i frutti avvelenati di una transizione democratica incompiuta, caratterizzata dall’impunità dei politici con la complicità delle classi dirigenti. La rivoluzione messicana, la prima del XX secolo, perfezionò l’autoritarismo preesistente. Dal 1929, presidenti onnipotenti governano senza contrappesi per 6 anni.
Nel 2000, dopo quasi 80 anni di governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), la stanchezza dei messicani portò alla presidenza il rappresentante locale della Coca Cola, Vicente Fox ma, dopo due governi di destra che nulla modificarono, il PRI tornava egemone.
Questo specifico tipo di violenza non si limita naturalmente al Messico, la cui specificità è forse il suo legame con la corruzione spicciola: a Iguala, infatti, i cattivi facevano parte dello Stato, e nei diversi massacri precedenti almeno la metà dei poliziotti lavorava per i criminali. Il problema del Messico non è la Costituzione, che anzi è stata la prima al mondo a riconoscere diritti sociali a tutta la popolazione e ad inventare una formula di economia mista assai simile a quella con cui Keynes contribuì a risolvere la crisi del ‘29. Il problema è la forma e il senso acquisiti dalla istituzionalizzazione del processo rivoluzionario, dall’egemonia corporativa che ha sequestrato lo Stato.
La debolezza dello stato di diritto è il risultato del mix di “caudillismo” e repressione esercitati dalle élite di potere a tutti i livelli, che gestiscono gli affari, monopolizzano il potere e mantengono corpi di polizia e strutture di governo corrotte proprio per evitare una transizione democratica.
Nel 2005 il periodico La Jornada commentava così uno studio condotto su 1.346 piccole e medie aziende: “Corruzione, frodi e comportamenti disonesti costano annualmente al Messico 81 miliardi di dollari, il 12% del Pil. Le imprese pagano bustarelle per circa 29,7 miliardi di dollari annui (4,5% del Pil)... Il 43% spende il 10% delle loro entrate a questo scopo... Ancora più preoccupante è che la corruzione è parte sostanziale della cultura nazionale. In media, i messicani sono iniziati alle pratiche corrotte a 12 anni, pagando bustarelle agli insegnanti, e hanno l’87% di possibilità di dover pagare altre bustarelle... I più poveri spendono il 25% del loro stipendio per pagare i corrotti... Il 63% delle piccole e medie aziende è stata vittima di frodi, con un costo annuo di circa 13,2 miliardi di dollari”.
Da parte sua, la Banca Mondiale stima che il Messico spenda oltre il 9% del PIL per la corruzione pagata dalla maggior parte dei cittadini. Per contro, ne dedica il 6% all’educazione.
Avidità, centralizzazione e concentrazione del potere, monopolio dell’informazione, controllo del commercio e dell’industria, eccessiva burocrazia, bassi stipendi, debole etica, mancanza di partecipazione cittadina hanno favorito l’abuso di potere e la mancanza di rispetto di leggi e valori.
Nell’elenco stilato da Trasparenza Internazionale il Messico occupa il 107° posto su 157 Stati.
Racconta un giornalista de La Opinión: “In una seduta plenaria della Camera un deputato ha dichiarato: ‘Vogliamo chiedere il ritorno di Raúl Salinas de Gortari (fratello dell’ex presidente Carlos, finito in carcere, n.d.r.), perché chiedeva solo il 10% mentre ora esigono il 30%”... Era una denuncia molto forte, espressa nella massima tribuna del paese, ma non successe nulla. Tra i deputati, nessuno cambiò espressione ascoltando i livelli a cui è arrivata l’avidità dei politici e dei funzionari pubblici”.
Questo è il contesto in cui si sono sviluppati i grandi cartelli: Sinaloa, Beltran Leyva, Los Zetas, Juárez, del Golfo e Tijuana. Poi, con la guerra al narcotraffico, si sono moltiplicati i casi in cui sono direttamente coinvolte polizia e forze armate, mentre la frammentazione dei grandi cartelli moltiplicava le organizzazioni in lotta per il controllo dei territori. La sanguinosa e crescente scia di violenza ne è la conseguenza.
Dopo avere partecipato all’incontro del G20 in Australia, Peña Nieto ha proposto il “Patto per il Messico”, un accordo politico, economico e sociale per promuovere la crescita, costruire una società di diritti, eliminare pratiche clientelari e diminuire povertà e disuguaglianza. E vantava: “In appena 20 mesi, il Messico ha concretizzato 11 riforme. Questo successo storico ha comportato un profondo sforzo illustrato da 58 modifiche costituzionali e 81 leggi, oltre all’abrogazione di altre 15, 21 nuovi ordinamenti giuridici, la costituzione di 3 nuovi enti e il rafforzamento di 13 preesistenti”.
Ma la stampa locale commenta: “Tra i costi nascosti del Patto per il Messico e le riforme si conta il ‘chi ha dato ha dato e chi ha avuto avuto’ concesso al predecessore di Peña Nieto (Felipe Calderón Hinojosa, n.d.r.). Non ci sarà alcun procedimento giudiziario per i 70.000 morti e 25.000 scomparsi di Calderón. I responsabili non avranno alcuna punizione; è un prezzo dovuto, perché senza l’appoggio dei suoi senatori, non sarebbero passate la riforma energetica o la denazionalizzazione del petrolio”.
Il guaio per il governo è che Iguala non è stato solo un altro episodio nella sequela di morti e scomparsi. Il Messico si è visto davanti a uno specchio e non si è piaciuto. Né l’arresto del sindaco di Iguala e di sua moglie, né la caduta del governatore dello Stato, né il ritrovamento di resti inceneriti che potrebbero corrispondere ai 43 studenti scomparsi sono bastati a tranquillizzare.
Il futuro di Guerrero, e del Messico
Nel 2011, a Monterrey, un gruppo di sicari incendiò il “Casino Royal” provocando la morte di 53 persone. Quel massacro produsse un allarme generale e la società civile - imprenditori, media, sindacati - collaborarono attivamente per rinnovare la polizia e investire in opere sociali ed educative. Non risolsero il problema, ma lo resero gestibile. Operazioni similari si sono sviluppate a Tijuana e Ciudad Juárez.
Replicare questo modello a Guerrero sembra difficile, non solo per la geografia, il basso livello educativo, l’alto indice di povertà e marginalità, ma perché richiede di attivare in breve tempo una strategia globale che metta in piedi un sistema di sicurezza e giustizia che protegga la vita umana tramite azioni legali, e prosegua con la modernizzazione complessiva dello Stato comprendente meccanismi di trasparenza e controllo (specie della polizia), garanzie di equilibrio dei poteri, partecipazione cittadina, riforme della giustizia che includano penalità forti per la corruzione, miglioramento delle condizioni lavorative dei funzionari pubblici, implementazione delle riforme già approvate e un lungo eccetera.
Senza di ciò, probabilmente ascolteremo a breve un altro “Grido di Dolores” (inizio della guerra d’Indipendenza). Questa volta, però, alla testa non ci sarà qualcuno come il prete Miguel Hidalgo y Costilla o i partiti politici esistenti, ma una società civile incazzata. Una tale situazione nella seconda nazione latinoamericana dal punto di vista economico e della popolazione, non potrà che avere pesanti ripercussioni su tutta la regione, ivi inclusa la superpotenza con cui confina.