Tullio, né matto né esatto
A casa mi prendevano sempre in giro. “Basta che uno non sia del tutto giusto perché diventi subito tuo amico!” Li chiamavano “i tuoi matti” e seguiva la lista: l’Olivo, il Vinicio, quello che faceva il vigile agli incroci, l’Arturo, il Ciano... il Tullio. Messo l’articolo, quel nome diventava subito dispregiativo. Era vero, sì, ma per me era una qualità, mica li prendevo in giro come facevano altri bambini e qualche adulto. Provavo simpatia per loro, com/passione (Mit-gefuhl) nel senso nobile: mi colpiva la loro vita particolare, senza scuola, sposarsi e avere figli, senza lavoro e anche senza oratorio. Mi ripagavano i loro occhi sorridenti, incontrandomi, a me bastava quello.
Tullio non era matto, ma neanche tutto esatto. Era un omone alto e robusto, scuro e riccio di capelli. Una discreta forza fisica gli permise di lavorare alcuni anni per una ditta di traslochi, a fianco del cognato che non lo perdeva d’occhio. Andò bene per un po’, poi gli attacchi di epilessia s’infittirono e nessun datore di lavoro volle una simile responsabilità. Pare fosse stata una meningite, conseguenza di una banale malattia infantile, a causargli quel ritardo mentale, al quale poi si sovrappose l’epilessia. Di sicuro crescere differente dagli altri, in anni dove guerra e miseria non offrivano percorsi facili, significava lottare per una fetta di polenta impregnata con l’odore dell’aringa affumicata appesa al soffitto. Dopo anni passati da un istituto all’altro, poiché Tullio era mite e non creava problemi, andò ad abitare con la sorella nella mia palazzina.
Presenza fissa della mia infanzia e adolescenza, lo rivedo con l’espressione un po’ triste e sofferente, poggiato al nostro cancello o a quello della casa di fronte. La sua vita si svolgeva in quei pochi metri, in attesa di qualcuno che passando gli rivolgesse la parola. A cui chiedere: “Mi dai dieci lire, cinquanta lire?”
Bastava fosse una moneta, la avvicinava con avidità agli occhi, come leggesse. Tutto contento la metteva in tasca, ma cosa ne facesse non si sapeva. Forse erano come le molliche di pane per Pollicino: la certezza di ritrovare la strada di casa lasciandone cadere una come traccia. Portava ciabattone con cerniera e pantaloni da lavoro di tela blu, con la pubblicità di una ditta di traslochi, famosa per la sua velocità.
Era la vedetta della nostra strada, sulla quale si affacciavano cinque abitazioni. Sotto il sole accecante di luglio o con la neve, lui era sempre lì. Era come un lavoro che iniziava appena sveglio; smontava solo per pranzare e finiva la sera con il buio. Aveva tanto tempo, era la sola cosa che aveva in abbondanza. Non saprei dire se fosse attento a chi andava e veniva, ma la sua presenza corpulenta almeno incuteva il dubbio. Che il tempo fosse cambiato lo capivi dal giaccone che indossava quando era freddo, dalla canottiera bianca quando faceva caldo. Con le immancabili bretelle, che noi bambini stupidamente tiravamo al massimo, fino a quando come elastici gli ritornavano velocemente addosso.
Allora ci rincorreva mordendosi il palmo della mano e gridando “Ahi ahi ahi, tarata tarata domani”, ma nessuno aveva paura e lui si divertiva più di noi.
Era rimasto bambino dentro un corpo di uomo maturo che stava invecchiando, di appetito robusto, goloso di dolci e gelati. Gli piaceva il vino, ma su di lui aveva brutti effetti: cadeva e vomitava, perdeva i sensi e quindi era proibito farlo bere.
Vino che chiedeva sempre più insistentemente e la mamma, di nascosto, ogni tanto gli dava un bicchiere di acqua con un po’ di vino a colorarla - gli bastava quello - facendosi però promettere di non dirlo alla sorella. Allora lui ricambiava il favore facendo la spia. Diceva alla mamma che mi aveva visto baciarmi con il mio ragazzo in macchina. Se lo sgridavo, incassava la testa come a evitare schiaffi: “Non so niente io” - ripeteva. Quel gioco innocente lo faceva sentire protagonista di una vita non sua, di una figlia che non aveva cui fare da padre, controllando cosa faceva.
Gli ultimi tempi cadeva spesso, perdeva sangue dal naso, mangiava poco e vomitava. Un giorno un’ambulanza portò via Tullio in barella. Non lo vidi più tornare e quel posto di vedetta ai cancelli non l’ha preso più nessuno. Pare che nella vita non ci sia nulla di più elevato, forte e utile di un bel ricordo.
Bisognerebbe raccoglierne molti, racchiuderli nel cuore e magari un giorno sarà uno di loro a diventare rifugio e via di fuga insieme.