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Bombardare i villaggi, bombardare i simboli

I musulmani sono allergici alla satira?

L’orribile attentato alla sede del periodico satirico francese del gennaio di quest’anno è stato analizzato da innumerevoli osservatori e studiosi sui media di mezzo mondo, nel tentativo di sviscerarne ogni aspetto e le motivazioni più profonde. Una domanda fra le tante è emersa, e su questa vorremmo qui soffermarci: perché il mondo islamico è così restio ad accettare la satira sui simboli religiosi? Domanda che evidentemente si salda con un’altra, che tutti si sono fatti: si possono porre dei limiti, e quali, alla libertà di satira, o la satira è di per se stessa una attività che non tollera limiti di sorta?

Una risposta autorevolissima a quest’ultima domanda è venuta ben presto da Papa Francesco, suscitando subito una levata di scudi negli ambienti più laicisti e, al contrario, venendo incontro almeno in parte alle ragioni dell’opinione pubblica musulmana. In realtà Francesco ha fornito due risposte: una almeno in apparenza alquanto istintiva (il famoso “pugno in faccia”), l’altra più meditata e argomentata.

Cominciamo dalla prima. Francesco, con un paragone che è sembrato improprio, ha paragonato l’offesa portata alla religione altrui all’offesa che si fa alla madre: se uno offende mia madre - ha detto - può aspettarsi da me un pugno in faccia. Ora, non so se il papa ne era in quel momento consapevole, ma certamente ha usato un paragone azzeccato, pienamente comprensibile per i musulmani, che da sempre chiamano la loro comunità umma. Questo termine arabo è derivato da umm, cioè madre! Insomma Francesco ha colto perfettamente nel segno: ridicolizzare il profeta dell’Islam equivale a colpire i sentimenti più profondi di quella comunità religiosa che ogni musulmano, osservante o meno, sente come la propria umma, ovvero, in senso lato, la propria madre.

A un livello più argomentato, papa Francesco ha affermato che non si può offendere “la religione dell’altro”; affermazione interessante perché - forse pochi lo hanno colto - mentre egli stabilisce un codice etico per i cattolici nelle loro relazioni con le altre religioni, implicitamente legittima la satira “interna”, anche quella a volte non proprio raffinata sulla sua stessa persona che è dato vedere in certi programmi tv.

Infine Francesco, in un intervento successivo, ha stabilito il principio che la libertà di espressione trova un limite pratico nella “prudenza”, una tipica (e desueta) virtù cristiana. Francesco, in altre parole, sottolinea che la libertà di satira andrebbe temperata con un principio di natura pragmatica. Se io prendo in giro insistentemente una persona o i suoi sentimenti, devo mettere in conto che questa potrebbe avere svariate reazioni, anche di un tipo che esclude le eleganti armi della dialettica, ergo...

Con un linguaggio molto semplice e senza mettere in gioco questioni teoriche (Fino a che punto la satira è tale e non si trasforma invece in vilipendio? La libertà di espressione è un diritto assoluto, che non tollera limitazioni?), il papa ha dettato alcune regole di buon senso, chiaramente rivolte non solo ai cattolici.

Ha parlato da autorità morale in cui tutto l’Occidente, credente o meno, potrebbe riconoscersi. Ma, altro elemento importante, ha sottolineato con forza la vulnerabilità e la suscettibilità dei sentimenti, specialmente di quelli di natura religiosa. Non si può pretendere di ridicolizzare i sentimenti religiosi altrui ignorando gli effetti spesso imprevedibili che questo tipo di condotta può mettere in moto. Ancora una volta non si tratta di discutere teoricamente sui limiti della libertà di espressione ma di considerare alla luce della “prudenza” certe possibili conseguenze pratiche.

Alcuni intellettuali di sinistra, cristiani e musulmani, sui media hanno in queste settimane portato un ulteriore argomento, che varrebbe la pena di non ignorare: eserciti occidentali, a partire dagli inizi degli anni ‘90, hanno invaso o bombardato chirurgicamente (le famose bombe intelligenti) con i più vari pretesti l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, la Somalia, e di nuovo l’Iraq e la Siria (questi attacchi sono tuttora visti da molti musulmani come espressione di una atavica aggressività imperialistica o un’arrogante ripresa delle vecchie tentazioni colonialistiche).

Come può l’ Occidente cristiano - ecco la domanda cruciale che non può lasciarci indifferenti - pensare di attaccare tanti paesi musulmani e per sovrappiù ridicolizzare i suoi più amati simboli religiosi? Potremmo aggiungere un’altra domanda, che più di qualcuno in verità si è fatto: la satira più sana non è stata, di regola, uno strumento di lotta contro i potenti, contro i padroni del vapore?

Satira sì, bestemmia no

Ma torniamo alla domanda iniziale. Davvero il mondo e la cultura islamica non conosce la satira, o, come sospetta qualcuno, addirittura non saprebbe ridere? Ho avuto modo di frequentare i testi della cultura letteraria musulmana, soprattutto di area persiana. Sin dal medioevo vi si trova una grande abbondanza di testi scherzosi e satirici che prendono di mira principalmente le classi religiose (ulema, mullà, sufi, asceti ecc.), e talora persino i dogmi. Ai religiosi non viene risparmiato nulla: accuse di ipocrisia, di corruzione, di predicare bene e razzolare male, di indulgere ad ogni sorta di vizi. Come Dante se la prendeva con la Chiesa di Roma “gran meretrice”, in un certo Hafez di Shiraz (m. 1390), il “Petrarca dei persiani”, che conosce a memoria il Corano, è dato leggere numerosi versi di questo tenore:

“Per Dio, lascia perdere quelli che indossano la tonaca, / ma il volto non stornare da noi libertini di tutto già spogli! / O tu che natura sei graziosa, di certo non tolleri / le lagne di quella congrega che la tonaca ostenta. / In quelle tonache, oh, quanta sozzura si nasconde, / abito migliore è quello dei mercanti di vino! / In quei falsi asceti io non vidi dolore sincero, / ma limpida è la gioia di quelli che si bevono feccia! / O tu, qui rifugiati, e guarda - per l’inganno degli ipocriti / la coppa del cuore di sangue ricolma e il liuto piangente!” (Hafez, Il libro del Coppiere, Carocci, Roma 2003, ghazal 71)

Teheran, monumento a Omar Khayyam

E due secoli prima di Hafez, un altro celebre poeta e matematico persiano, Omar Khayyam (m. 1126), componeva quartine ispirate a una filosofia del carpe diem in cui inneggia al vino (vietato dalla shari’a) e ai piaceri della vita, in barba ai dogmi e alle ipocrisie dei religiosi:

“Bere vino e corteggiare le belle / è meglio che fare esercizi di ipocrita ascesi... / Noi stiamo fra vino e amiche, tu nel monastero e nel tempio / Noi siamo gente d’inferno, voi gente di paradiso. / Ma in questo qual colpa noi abbiamo dai giorni prima del tempo? / Sopra il quaderno del fato così ci dipinse il Pittore!” (Omar Khayyam, Quartine, Einaudi, Torino 1956)

Khayyam si spinge con toni di tagliente sarcasmo fino ad accusare i religiosi delle peggiori nefandezze:

O prete! Noi siamo di te più abili e accorti. / Con tutta l’ebbrezza nostra, di te noi siamo più sobri. / Noi beviamo sangue di vigna e tu sangue di uomini bevi. / Sii giusto un istante: chi dunque è il più sanguinario?”

Khayyam arriva a un passo dalla bestemmia quando si prende gioco del divieto del vino e dei dogmi sull’aldilà come in questi versi famosi:

“Mi dice la gente: ‘Gli ubriachi andranno all’inferno!’ / Ma sono parole prive di senso pel cuore; / se dunque andranno all’inferno i bevitori e gli amanti / vedrai il paradiso domani nudo come palmo di mano!”

Come si vede da questi pochi esempi, le classi colte della umma fondata da Maometto sin dal medioevo islamico hanno goduto di una certa libertà di critica e di satira, anche feroce, nei confronti sia dei religiosi che degli stessi dogmi. Ma un limite preciso non è mai stato varcato: quello dell’offesa diretta a Dio o al suo profeta, la bestemmia insomma. La stessa rigogliosa arte miniaturistica musulmana si è sempre astenuta dal ritrarre Dio o il volto del profeta (questo aniconismo, secondo gli studiosi, rivelerebbe precisi influssi cristiano orientali).

Qui si può osservare una differenza culturale che spesso viene ignorata dai più. Mentre nel mondo cristiano, soprattutto di tradizione cattolica e mediterranea, la bestemmia è entrata nell’uso quotidiano del popolino e non solo, e in fondo è guardata persino dai religiosi con molta indulgenza (un vecchio parroco, commentando l’abitudine dei muratori di bestemmiare allegramente Dio e la Madonna, diceva: “Mah, forse è il loro modo speciale di rammentarsi del Signore!”), nel mondo musulmano non solo la bestemmia resta inconcepibile, ma ogni pur minima espressione (verbale o artistica) irriverente nei confronti di Dio o del profeta Maometto può suscitare reazioni indignate e talora - come avviene per esempio in Afghanistan o in Pakistan) - può essere punita dalla legge nel modo più severo.

Se la nostra società è già una società multiculturale, come lo è da tempo in Francia, Germania e Inghilterra, o come noi stessi in Italia ci stiamo avviando a diventare, sarebbe bene tenere ben presenti queste differenze di sensibilità. Non possiamo permetterci di bombardare i simboli religiosi in nome della libertà di espressione, oltre che bombardare città e villaggi musulmani in nome di una democrazia che pretendiamo di insegnare.

Per rispetto dei sentimenti altrui e per un elementare buon senso. O quanto meno sarebbe bene ricordarci d’ora in avanti le semplici, sagge, pragmatiche indicazioni di papa Francesco.