Parole dal carcere
Un gruppo di detenuti nel carcere di Trento si interroga e scrive come la libertà sia preziosa da conservare e facile da perdere
Nel gennaio scorso, presso la Casa Circondariale di Trento, ha preso avvio il progetto di “Redazione in carcere”. Proposto dall’Apas (Associazione Provinciale di Aiuto Sociale), in collaborazione con la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia e con l'Ufficio Educatori presso il carcere, per mezzo di un volontariato qualificato, il progetto vuole favorire la realizzazione di nuove progettualità in carcere. Oggi coinvolge una decina di detenuti, coordinati da Piergiorgio Bortolotti, ex direttore del Punto di Incontro ed autore di numerosi romanzi, e da chi scrive, docente di lingue, traduttrice e redattrice di QT. Gli articoli sono il risultato di una scrittura collettiva, processo che Don Milani, che ne aveva fatto il suo metodo di lavoro, spiegava: “Noi dunque si fa così: per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo…”. (da “Lettera ad una professoressa”). Con intenti più modesti dei ragazzi di Barbiana, anche noi abbiamo usato lo stesso metodo di lavoro, ma dividendoci in due gruppi, uno con Piergiorgio, l'altro con Annalisa. “La libertà è un altro mondo. La libertà è un'altra cosa”. “Quando ce l'hai non ci pensi”. “Libertà è fare un giro in montagna!” “Se mi liberano oggi, dove vado? Cosa faccio? E con chi?”. Quando apriamo la discussione sulla libertà, le voci si alzano, si animano, si sovrappongono. Tutti parlano insieme, quasi senza ascoltarsi. Intorno a tavoli da scuola col ripiano di formica verde, nell'aula 1 della sezione educativa della Casa Circondariale di Trento, ogni martedì pomeriggio si anima il gruppo di “detenuti redattori”, italiani e stranieri, di varia provenienza, esperienza, e di varia storia criminale.
L come “la corda”
Un giorno Mouldi “ha fatto la corda”. Lo racconta pacato come parlasse di cosa ha mangiato a pranzo. “Avevo la casa, la famiglia, il lavoro, ma ho perso tutto. Nella mia casa ci sono ancora i miei mobili. Le bollette degli inquilini nuovi sono ancora intestate a me. E posso solo sperare che le paghino. Ho perso anche mia moglie, in questi 8 mesi di carcere. E a mio figlio ho detto che sono in Belgio a lavorare. Così, quando ho saputo che non mi davano i domiciliari, mi è arrivato un momento troppo nero, troppo debole, non so. L'ho presa male”. C'è il calcio in televisione e Mouldi è in cella da solo; ha mal di testa. Steso sul letto, non fa che rileggere quei fogli. Poi prende il tavolo e la bandiera dell'Inter, ci fa due nodi e ci si lega, in alto. “Poi la volevo togliere, - ricorda - ma i nodi erano diventati duri e non potevo”. Per fortuna, passa un assistente, si accorge che Mouldi è in pericolo e chiama i soccorsi. “Mi hanno mandato la psicologa e mi hanno chiesto 'Ma perchè?' Volevo riposare. Non volevo pensare più”. In carcere per reati di droga, tunisino, Mouldi a fine febbraio ha avuto il permesso di fare un colloquio di lavoro. Se tutto va bene, tornerà a fare il metalmeccanico, part-time, e con l'affidamento al lavoro potrà riprendere almeno “mezza vita normale”. Il fine-settimana premio a casa dei parenti, a Brescia è uno spuntino di libertà: “La prima volta, dopo tanto tempo, predomina la paura. Di sbagliare. Di sbagliare strada. Di sbagliare orari”. Ma va tutto bene. E i carabinieri per non spaventare suo figlio, quando è ora di rientrare, invece di presentarsi di persona telefonano. “Ma la libertà è un altro mondo: a casa tua puoi muoverti da una camera all'altra, mangi quello che vuoi, quando vuoi. Sono uscito in giardino a fumarmi una sigaretta e mi è tornato in mente il carcere. Mi sono chiesto 'Ma dove sono stato tutto questo tempo?' Adesso, se qualcuno mi dice della corda, mi viene da ridere! E' una sciocchezza!
I come “Io non ci penso neanche!”
“Io, alla libertà, non ci penso neanche”. Alza le spalle e abbassa gli occhi, Said, quando è il suo turno di parlarne. È un barbiere marocchino, clandestino, corriere di droga fra l'Italia e l'Austria; in Italia è solo, sia fuori che dentro la prigione. Per altri 4 anni. Neanche la madre sa che è in carcere, perché parlarne fa troppo male. “Non sono capace”, dice piano Said. Ci vuole qualche settimana perché si lasci coinvolgere nel gruppo di redazione. Poi gli si accende lo sguardo. E accetta un ricordo: libertà è l'aria di Vienna dal finestrino di un treno per Praga. Una scappata senza documenti e senza scrupoli per far sorridere la sua fidanzata. A Praga, però, la sera, in discoteca, scatta la rissa: quattro magrebini offendono la sua fidanzata. Come loro, Said è ubriaco; difende la fidanzata, i ragazzi si picchiano e lui si prende una coltellata al collo. “Messer” - coltello – come la lama di allora, la parola gli esce di bocca in tedesco, mentre ci mostra la cicatrice. I magrebini scappano. La polizia arriva. La fidanzata torna a Vienna da sola, perché Said finisce in prigione: “La prima settimana non mangiavo, ho fatto lo sciopero della fame. E dopo un'altra settimana sono uscito”. A Praga, quando lo arrestano, gli chiedono se parla tedesco o italiano; l'interprete di arabo non c'è. Said sceglie l'italiano. “Libertà è poter parlare”, osserva quando arriva in aula con un libro da cui copia le frasi che lo colpiscono: è “L'altra libertà”, raccolta di racconti scritti da detenuti, edizione 2010 del premio letterario Emanuele Casalini, riservato ai detenuti delle carceri italiane.
B come Brutta
“Brutta la vita in prigione”, per Marco, che ha 39 anni, ha rapinato il Paese da sud a nord e dietro una serranda scassinata ha trovato l'amore. E il carcere: “La libertà l'ho trovata negli occhi della mia donna”, dice. Poi precisa: “È qui anche lei. Ci hanno arrestati insieme, ma non ci possiamo vedere né sentire, perché non siamo né sposati né conviventi”. È una storia che sembra un romanzo. E infatti Marco lo sta scrivendo: l'amore lo ha trovato davanti alla vetrina del negozio che entrambi intendevano svaligiare. Ma B è anche “botte”: quelle che Marco ha dato alla sua ragazza e alla signora che hanno rapinato insieme: la malcapitata si è presa le botte dalla fidanzata di Marco più per gelosia che per soldi, se è vero che la fidanzata ha reagito allo sguardo languido della vittima e per punirla ha deciso di assaltarla! Ladro e gentiluomo, in decenni di attività Marco non aveva mai picchiato le sue vittime, ma - dice - “per fermare le due donne non ho avuto scelta”. È in carcere per la prima volta e per lui “tutto è brutto. Tutto mi pesa. E niente mi interessa. L'educatrice mi ha consigliato di venire in questo gruppo perché sa che amo scrivere”. E conclude: “Se mi tolgono la penna sono finito”.
E come Égalité! (Fraternité! Liberté!)
Espatriato per lavoro in Francia, Andrea si definisce “esule di un sistema assistenzialista italiano e trentino che non gli ha riservato niente di buono”. In prigione per la prima volta, ha il viso segnato da fatiche e violenze: “In Francia non avevo bisogno di fare rapine: quando sono arrivato, mentre cercavo lavoro mi hanno dato un alloggio e 600 euro al mese per vivere.” E racconta che anche quando ha trovato lavoro, il sussidio gliel’hanno lasciato, seppur dimezzato. “Qui invece non ho mai avuto diritto a niente! E quando ho cominciato a fare furti, rubavo per mangiare!” Libertà è un ideale perso e da riconquistare, per Andrea, a cui la prima carcerazione ha interrotto un percorso di riassestamento sul lavoro e con la famiglia: “Avevo ritrovato la dignità che credevo persa. Quando uscirò sarà più dura. Qui non sei neanche libero di pensare. La differenza principale è che, quando sei fuori, il pensiero sei libero di trasformarlo in azione”.
R come rapinator gentile
Assaltava i camionisti senza fargli male e lasciandogli, sempre 3-4 mila euro in tasca, come “indennizzo morale”, D., rapinator gentile: una vita a mano armata, (la prima volta a 18 anni). Per i soldi, per pagarsi la bella vita, ammette senza indugi o ipocrisie. Ma ai camionisti rapinati, D. e i suoi complici lasciavano una cifra che ripagasse in parte la paura, il disagio, lo spavento. E ci tiene a precisare che non facevano violenza: mai nessuna lesione. Solo furti. Solo soldi. Sono le piccole cose, le piccole cose quotidiane. Le piccole cose ripetute con insistenza e senza interruzione, senza una logica o un cambiamento all'orizzonte, quelle che per D. inaspriscono la privazione di libertà: “Avevo anche una ditta di autotrasporti e davo da lavorare a dieci famiglie. Pagavo bene. Ma mi hanno anche fatto chiudere la ditta”. Assiduo commentatore delle notizie alla televisione, D. commenta disilluso le elezioni, il calcio, le dimissioni del papa. “A cosa serve stare in prigione così?” - chiede poi ripetutamente - “Se mi tengono qui dentro altri 4 anni senza poter cambiare, esco più incattivito di prima. Come vuoi che faccia uno, se quando esce non ha più un lavoro, nessuna possibilità e una caterva di debiti?”. Misure alternative, affidamento al lavoro, progetti di formazione e 'rieducazione' spendibili all'esterno e che consentano di non arrivare al giorno in cui ti chiamano “liberante” e te ne vai col tuo sacco nero senza sapere che fare, solo, e in preda alla paura, è quello che D. vuole dal carcere. Per dare un senso alla privazione della libertà esercitata dallo Stato sui detenuti. Concreto, sostanzia la libertà nella mancanza di una passeggiata sul lago con i suoi cani. La sua assenza nella ripetitività assordante del dover sentire ogni giorno gli stessi rumori.
T come tempo
Tempo che in carcere scorre lento e che può essere impiegato meglio anche leggendo. La biblioteca del carcere è ben fornita, ma non ci sono giornali e riviste. Il gruppo del progetto di redazione presso il carcere di Trento ha cominciato a introdurne alcuni. Chi avesse riviste di taglio culturale e informativo da regalare ai detenuti può contattare l'associazione APAS di Trento: email: info@apastrento.it; telefono 0461/239200.
A come amore
“La libertà sboccia dall'amore: è negli occhi di mia moglie. Quando l'ho conosciuta mi sono sentito libero. Di essere me stesso”. In aprile Rosario lascerà il carcere; nel frattempo si chiede come trascorrerà il primo giorno fuori. In prigione per la seconda volta, alla prima uscita per l'affidamento al lavoro, è totalmente spaesato: “Alle due del pomeriggio mi è venuta a prendere mia moglie. Siamo andati a fare la spesa. E io avevo la sensazione che tutti, dentro il supermercato, mi stessero guardando. Le ho chiesto se era così. E lei ha confermato. Forse perché ero magro, emaciato”. In carcere Rosario ha perso 16 chili, perché non mangiava e non dormiva, per la collera e il dispiacere. “E poi, c'è un modo di camminare diverso qui. Camminiamo lentamente, sapendo che non possiamo andare dove vorremmo”. A casa, la prima sera, Rosario dopo cena vomita. Gira spaesato: le porte hanno maniglie che può aprire e richiudere. I rubinetti del lavandino girano. Una sigaretta fuori orario, accesa in cortile una sera d'estate, dimentico di essere ancora un detenuto, interrompe mesi di arresti domiciliari. Quella sigaretta accesa per abitudine, nonostante le regole appese al muro della cucina, per la legge è evasione. Così, Rosario torna in carcere. E lì ora scrive: “Libertà è la fine della mia pena. Ora che è vicina il tempo sembra essersi fermato. So che non è così, ma ugualmente scorre lento. E io sono confuso. Ma ho capito che la prima cosa da fare è riabbracciare i miei affetti. E da lì, ripartire. Sto per resuscitare!” Ci legge il pezzo e commenta: “Forse è banale?”