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QT n. 10, ottobre 2013 L’editoriale

Una storia esemplare

QT di settembre, in edicola sabato 14, doveva arrivare agli abbonati lo stesso giorno. In teoria: in pratica le Poste si prendono la libertà di consegnare i periodici entro 3 giorni lavorativi dopo la data d’uscita. Invece, dopo una settimana, cominciano ad arrivare in redazione, per telefono e mail, segnalazioni di abbonati che non l’hanno ricevuto proprio. Rispondiamo di pazientare. Intanto contattiamo l’incaricato dei reclami: ascolta, annota, provvederà, ci riferirà. Dopo 10 giorni e alcuni contatti (nostri, lui non si fa vivo) con l’incaricato, appuriamo tramite un’indagine telefonica che a circa 3 su 4 abbonati il giornale non è ancora arrivato; facciamo partire una diffida a Poste Italiane dal nostro avvocato.

Il 26 ci telefona un altro operatore: non è, ci dice, un dipendente di Poste Italiane, né ha alcuna idea dello stato della consegna del giornale, e nemmeno di dove si stia operando (“Non è arrivato a Vigolo Vattaro? Guardi, non ho idea di dove siano i posti di cui mi parla”). Insomma, per pesci piccoli come QT, definiti “non rintracciabili”, non c’è nulla da fare se non rivolgersi a un numero verde. Chiamiamo il numero verde: l’operatrice conferma, più rudemente: “Non possiamo fare nulla. Se volete denunciare, accomodatevi”. Se il giornale non arriva, non viene attuato nessun intervento.

Insomma, pur con un progressivo scadimento del servizio iniziato con la privatizzazione, fino a due mesi fa era possibile segnalare i disservizi, e vi si poneva rimedio. Ora neppure si accettano le segnalazioni, confidando nelle lungaggini delle cause civili, che per un ente come le Poste, dotate di un robusto ufficio legale, sono a costo zero.

E allora dobbiamo reagire all’italiana. Denunciamo il disservizio tramite un’interrogazione parlamentare (dei senatori Tonini e Panizza) e pubblicizziamo il tutto attraverso un’intervista sul Corriere del Trentino. Le Poste si fanno vive: ora un incaricato seguirà la consegna di QT. Per ora.

Questa lunga premessa, peraltro dovuta ai nostri abbonati, per parlare non solo di QT. Ma dell’Italia e del Trentino. Dove va il nostro paese? Che tollera di avere un servizio essenziale come quello postale sotto i minimi canoni di efficienza? Che non assicura le condizioni base perché continuino a circolare gli stampati, quindi le idee?

E più in generale: la comunità, le istituzioni, che non controllano, non regolano. Il caso più clamoroso sono i lembi di territorio in mano alla criminalità. Ma altrettanto allarmanti sono i servizi che non rispondono più a logiche collettive: le Poste appunto, ma anche le Ferrovie che sfruttano l’Alta Velocità (con grandiosi investimenti pagati dal pubblico) e fanno marcire il grosso degli spostamenti, pendolari e merci. O Alitalia o Telecom, che dovranno andare in mani straniere per acquisire un minimo di - pelosa - razionalità.

In tutto questo c’è un comune vizio: l’incapacità della politica, del pubblico, di avere un rapporto pulito, retto, con le realtà economiche. Di essere trasparente.

In questo il Trentino sta meglio. Ma anzitutto non può chiamarsi fuori, pensandosi l’isola felice. E inoltre rischia di adeguarsi all’andazzo italico.

QT da sempre denuncia i pericoli di questa deriva, incontrando a livello istituzionale una preoccupante sordità. Riportiamo qui l’ultimo episodio: la biblioteca d’Ateneo, espulsa da piazzale Sanseverino e ricollocata al polo sud dell’ex-Michelin, al posto del fantomatico Centro Congressi voluto da Dellai. Al netto di tutti i discorsi su importanza e attualità di una grande biblioteca, che ci ripromettiamo di approfondire, si finisce con realizzare una costruzione molto più anonima, meno funzionale, e in luogo decentrato e avulso dal contesto universitario. La cosa tuttavia ha una sua razionalità: recuperare i maxi edifici riservati al Centro Congressi, già costati 30 milioni, altrimenti destinati a ospitare un dispendioso carrozzone di cui nessuno sente il bisogno, in realtà costruiti come ennesimo favore al pasticcio delle Albere e ai potenti di Isa, Itas, ecc. Insomma, la biblioteca alle Albere è la pezza per coprire il buco dellaiano del Centro Congressi: al solito il cittadino continua a pagare la contiguità del dellaismo con i poteri forti.

Il punto è che di questo nessuno parla. Né nel verboso dibattito sulla biblioteca, né nelle polemiche elettorali, da cui peraltro la parola Isa è bandita, anche dalle opposizioni.

Male, molto male. Perché, al di là del caso specifico, questo non ci sembra un livello di virtù civiche e di cultura politica in grado di gestire decentemente il nodo del rapporto pubblico-privato. Che oggi è decisivo, e lasciato marcire irrisolto, sta affondando l’Italia.