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I rifugiati politici, cittadini del Nulla

Razi e Soheila Mohebi
Razi Mohebi

Come rifugiati politici che vivono in Italia da oltre 5 anni, siamo giunti alla conclusione di dover impugnare la penna e raccontare di quell’uomo indefinito: Chi è il rifugiato politico? Cos’è l’asilo politico? Cosa significa chiedere quest’asilo all’Italia? Il rifugiato politico è l’emblema delle contraddizioni del mondo globale. Prigioniero di due stati, quello da cui è fuggito e quello che lo ha accolto. Un uomo senza volto, un fantasma che nel migliore dei casi trova di fronte a sé tre porte chiuse. Infatti, ammesso che il suo corpo non diventi mangime per i pesci, o non venga schiacciato dai camion cui si aggrappa per superare la frontiera, una volta ottenuto l’asilo, trova di fronte a sé tre grandi porte chiuse. La prima riguarda l’impossibilità in Italia di poter dare continuità a quell’attività politica e sociale per la quale il rifugiato ha rischiato la vita. Questo è il caso di giornalisti, attivisti, avvocati, registi (come chi scrive) e studenti che non sono fuggiti alla ricerca di un miglioramento economico, ma con l’obiettivo di perseverare nelle loro attività politiche, sociali e culturali. Non potendo fare ciò, il loro sacrificio perde qualsiasi senso. In un paese come l’Italia, privo di una legge organica in materia, nei migliori dei casi il rifugiato è costretto a vivere di piccoli sussidi che ne permettono la sopravvivenza ma non ne favoriscono la realizzazione personale. Si permette al corpo di sopravvivere, mentre l’anima avvizzisce. Parliamo di uomini e donne con elevati titoli di studio, specializzazioni, spirito imprenditoriale, desiderio di restituire il favore dell’accoglienza arricchendo la società che li ospita. Ma ogni loro intenzione, ogni energia vitale è spenta dalla insensatezza del meccanismo burocratico che gestisce la loro vita. Un meccanismo che preferisce elargire sussidi, trovare lavori poco decorosi ma “controllati”, rinchiudere in alloggi “protetti” o superaffollati al permettere una realizzazione delle proprie aspirazioni. La seconda porta è sbarrata dalla Convenzione di Dublino, cui aderiscono 24 paesi europei, che obbliga il paese ricevente a registrare le impronte digitali del richiedente e limitarne entro i propri confini la residenza e il lavoro: ciò rende l’asilo politico un esilio. Ed è paradossale che in una società globale in cui tutto sembra muoversi liberamente, le persone non abbiano gli stessi diritti di movimento delle merci. La terza porta è chiusa dall’impossibilità del ritorno in patria. I rifugiati si trovano costretti ad ondeggiare in un limbo. Negli ultimi due anni, sul solco della crisi economica, già 800.000 immigrati hanno deciso di lasciare il Paese per rientrare nei loro stati d’origine. È bene ricordare che il rifugiato politico, a differenza degli immigrati, non può tornare nel proprio paese nemmeno quando il paese ospitante versa in situazioni economiche e sociali che non ne permettono una vita dignitosa. Per aprire queste porte servirebbero tre provvedimenti: una legge organica per i rifugiati, l’abolizione della Convenzione di Dublino e l’accelerazione dei tempi per il diritto di cittadinanza. Non potendo varcare le tre porte, il rifugiato viene risucchiato in quattro gironi infernali, il primo dei quali è rappresentato dagli enti locali - nel caso del Trentino dal Cinformi. Per il rifugiato gli enti locali sono strutture imbalsamate e inermi il cui ruolo non è chiaro. Passata la fase emergenziale dell’accoglienza (che può durare anche degli anni), il rifugiato viene spinto nel secondo girone: quello delle agenzie per il lavoro. Qui l’assenza della cittadinanza e l’impossibilità di muoversi liberamente in altri stati alla ricerca di un lavoro crea un circolo vizioso: la mancanza di offerte di lavoro dovuta alla crisi, infatti, obbliga all’assistenzialismo continuo, ultima via verso il margine della società. Il terzo girone passa per le infinite vie degli assistenti sociali e dei loro tentativi di trovare alloggi protetti, case famiglia e lavori scartati dagli italiani. L’ultimo girone, esaurita ogni possibilità di inserimento, passa per il soddisfacimento dei bisogni primari presso enti come la Caritas. I rifugiati finiscono per diventare anime morte, un pericolo per la società, oltre che per se stessi. Per quanto riguarda il nostro caso di rifugiati politici dall’Afghanistan, dopo più di 5 anni vissuti in Trentino abbiamo iniziato ad amare questa terra e a tessere con essa dei legami. Una terra in cui abbiamo cresciuto nostro figlio che parla e si sente in tutto italiano. Per lui il Trentino è il suo pianeta. Una terra che abbiamo provato a vivere a livello sociale e culturale attraverso dei progetti: anzitutto il “Progetto Afghanistan 2014” realizzato con la collaborazione del Forum per la Pace del Trentino, di Filmwork Trento e delle Fondazioni Fontana e Mehregan. Un progetto che coinvolge importanti attori locali ed esteri e che vuole fare del Trentino il centro internazionale di un dialogo interculturale sul futuro dell’Afghanistan, ma soprattutto su un futuro basato sulla cultura della pace. Altri progetti hanno riguardato la nostra attività di registi. In questi anni abbiamo infatti realizzato in Trentino diversi film e portato con orgoglio il nome del Trentino ad oltre 50 proiezioni presentate in altre regioni d’Italia e all’estero, anche in occasione di importanti festival internazionali. Infine, da tre anni abbiamo dato vita all’Associazione Sociocinema, nata in collaborazione con alcuni studenti di sociologia di Trento. Un’associazione che attraverso un workshop di cinematografia digitale, da noi tenuto, promuove l’uso di strumenti digitali per raccontare la realtà. Ma nonostante i nostri sforzi per integrarci, ci scontriamo con gli innumerevoli ostacoli che, come abbiamo descritto, ogni rifugiato deve affrontare e che limitano la nostra capacità di agire in modo indipendente, e di fronte alle quali le istituzioni sembrano impotenti. E proprio per la mancanza di responsabilità manifestata dalle istituzioni, chiediamo la cittadinanza immediata, uno strumento per diventare autonomi rinunciando ad ogni forma di assistenza. Chiediamo la cittadinanza immediata come atto d’amore verso il territorio e le persone che ci hanno accolto e in cui abbiamo investito affettivamente e professionalmente. Vogliamo continuare a farlo, ma da cittadini italiani.