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La mia Etiopia

L’esperienza di un cooperante trentino

Marco Nicoletti

Mi chiamo Marco Nicoletti, ho 42 anni; ragioniere e sociologo, da 6 anni lavoro come coordinatore di progetti di sviluppo, prima in Etiopia e ora in Brasile, nelle periferie di Salvador. Passati i primi 25 anni della mia vita tra casa, parrocchia e oratorio prima, università poi, sentivo il bisogno di fare qualcosa di diverso. Ho iniziato cercando un’identità politica, quasi realizzata con 9 anni di attività circoscrizionale, poi con l’associazione Altrimondi, costituita a Trento nel 2000 con amici che condividevano i valori della multiculturalità. Ma la spinta a fare le valigie è arrivato dopo un viaggio nel Cearà (Brasile), con l’associazione trentina Tremembé, e dalla successiva partecipazione ad una formazione con l’organizzazione LVIA di Cuneo, dove ho capito cosa significasse lavorare all’estero nella cooperazione; e quindi ho inviato il mio curriculum. Non scappavo dalle difficoltà, da una insoddisfazione: andavo alla ricerca di conoscenza e realizzazione.

Un giorno del 2006 stavo prendendo un caffè in un bar in viale Verona con un amico, quando mi telefonarono da Cuneo per propormi di diventare responsabile di progetto a Moyale, in Etiopia. Il cuore mi batteva a mille: dall’emozione ma anche dalla paura di assumermi una responsabilità troppo grande. Ma ho accettato la sfida e dopo un paio di settimane ero in volo per Addis Abeba.

In Africa avevo fatto solo un viaggio-studio con l’UNIP di Rovereto, conoscendo nuovi amici e scoprendo un mondo, fatto di città e di capanne, di tamburi nella notte, poche macchine, tante biciclette e molte persone sempre in cammino. Poi, ho scoperto la differenza tra povertà e bisogno, perché ho conosciuto persone felici anche se non avevano niente. O forse avevano tutto ciò che gli serviva in quel momento? Ho incontrato persone che non avevano niente di quello che abbiamo noi: solo cammelli, una capanna di paglia, che all’occorrenza si smonta e si carica come una casa ambulante, dei contenitori per il latte fatti coi gusci delle zucche, e il carbone per cucinare l’injera. Agli occhi di un occidentale questa è miseria pura! Ma per me era un ritorno al secolo scorso, tra le nostre montagne, quando un tetto, un fuoco, un orticello e due animali erano la cosa più preziosa.

La base di lavoro era Moyale, una cittadina tagliata in due dal confine con il Kenia, e per il lungo da una strada asfaltata, ai cui bordi c’era la vita: ristorantini, hotel e motel per camionisti, negozi di scarpe di seconda mano provenienti, probabilmente, da associazioni benefiche che le avevano rivendute a prezzi simbolici ai negozianti locali, per stimolare il commercio. Questa strada era anche il confine tra due municipalità, una di etnia Oromo, l’altra somala. Una divisione che segnava anche molte nostre attività, perché dovevamo prestare attenzione a rendere i nostri interventi il più equilibrati possibile.

A Moyale eravamo quattro cooperanti: Mario, geografo romano, Luca, giovane ingegnere veneto, e Brian, figlio di cooperanti inglesi in Africa. Moyale è a un giorno e mezzo di viaggio da Addis Abeba, che, su un altipiano a quasi 4000 metri, ospita la sede dell’organizzazione; ci andavamo una volta ogni mese e mezzo per una riunione dove ognuno portava gli aggiornamenti e risolveva dubbi e difficoltà.

Il mio era un progetto di sicurezza alimentare, finanziato dall’Unione Europea, dalla Regione Marche e dalla Provincia di Bolzano, grazie alla collaborazione di un atipico chitarrista country altoatesino, famoso in Etiopia. Dovevamo lavorare in sette comunità, con attività legate principalmente alla sopravvivenza degli animali, primaria fonte di guadagno della zona, e in particolare ripristinando pozzi e laghetti artificiali, gestione di aree verdi per il pascolo, commercializzazione di prodotti come il latte e le resine per la produzione di incensi, oltre a fare sensibilizzazione sull’Aids.

A tratti emergevano brandelli di storia italiana: parole portate in Etiopia nella seconda guerra mondiale, come “carburatore” o “mastica”, che i locali usano per dire gomma da masticare. Ricordi di vecchi pastori che, al sapere della nostra origine, si mettevano sull’attenti fingendo di marciare.

Lavoravamo con un’équipe di tecnici locali: veterinari, tecnici idrici, esperti di risorse naturali, contabili, logisti, e comunicavamo attraverso dei traduttori (ne avevamo 4, due per la lingua somala e due per quella oroma), che ci aiutavano anche a capire le esigenze del luogo. Italo, il nostro responsabile in Etiopia, ora direttore dell’organizzazione in Italia, era stato chiaro: dovevamo sempre porre domande “senza risposte”, per evitare che la soggezione al ferengi - allo straniero - influenzasse le scelte degli etiopi. Dovevamo cioè chiedere senza anticipare la nostra idea o un suggerimento, per non condizionarli.

Le notizie sull’Etiopia oggi le seguo dal Brasile: tra la ristrutturazione di un pozzo, la semina di erbe per gli animali e la nuova cooperativa del latte di Moyale, un giorno il collega ed amico Mario mi informò di una selezione per il Brasile. Ho partecipato e ho vinto. Con gioia, ma anche con tristezza ho lasciato l’Etiopia e delle bellissime persone.

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