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QT n. 5, maggio 2012 Servizi

Tragici misteri d’Italia

La strage di piazza della Loggia, a Brescia, rimarrà senza colpevoli. È lo stesso esito di troppe tragedie italiane.

Una barriera impenetrabile

Milano, 1969

È del dicembre 1969 la strage di Piazza Fontana, a Milano, provocata da una bomba fatta esplodere da misteriosi terroristi nella filiale della Banca dell’Agricoltura. A Piazza Fontana seguirono le stragi di Gioia Tauro (22 luglio 1970), di Peteano a Gorizia (31 maggio 1972), della Questura di Milano (17 maggio 1973), di Piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), sull’espresso Italicus Roma-Brennero (4 agosto 1974), di Via Fani a Roma (16 maggio 1978), della Stazione di Bologna (2 agosto 1980). Sono gli anni delle stragi, le tappe sanguinanti di una strategia del terrore che per oltre un decennio ha tenuto l’Italia sotto l’attacco di trame oscure.

Veri e proprio attacchi di terrorismo politico, eseguiti da balordi o da militanti della destra parafascista, sotto la direzione di servizi segreti deviati, su mandato di un regista occulto che può essere individuato soltanto con la prova logica del cui prodest. A chi hanno giovato? Più esattamente: a chi avrebbero dovuto giovare?

Per capirlo bisogna riandare al contesto politico, caratterizzato da un processo lento ma costante di avvicinamento fra Partito comunista e Democrazia Cristiana, fra l’Enrico Berlinguer del “compromesso storico” e l’Aldo Moro delle “convergenze parallele”. Processo di crescita della democrazia italiana, fino allora ingessata in due blocchi contrapposti fra loro, non comunicanti, un processo che era temuto dalla destra interna, rappresentata dalla Loggia P2 di Licio Gelli, oltre che dagli Stati Uniti.

Il senatore Giulio Andreotti, in occasione del premio De Gasperi conferito a Carlo Azeglio Ciampi a Trento (19 agosto 2006), ci ha ricordato quei giorni da lui vissuti in primo piano. Ci ha detto che gli americani sono molto intelligenti, dispongono di uffici-studi molto efficienti, ma di solito le cose le capiscono in ritardo. Tanto che fu necessario spedire Giorgio Napolitano, il cosiddetto migliorista del PCI, oggi presidente della Repubblica, negli Stati Uniti a tenere una serie di conferenze, perché anche l’amministrazione di Washington capisse che l’evoluzione in corso in Italia non meritava di essere contrastata. Ma tale comprensione fu lenta a venire e non valse a impedire le stragi, e forse persino il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Infatti, se le prime furono organizzate dai servizi segreti atlantici, il secondo pare che, benché ve ne fosse la possibilità, non sia stato impedito. Sono ancora molti i misteri non chiariti che avvolgono le cronache di quei drammatici giorni della primavera del 1978.

Roma, 1978

Al processo per la strage di piazza della Loggia io partecipai in difesa di alcuni familiari delle vittime. Imputati erano gli esecutori materiali del delitto. Squallidi, insignificanti personaggi, probabilmente prezzolati. Il processo, durato numerose udienze alla Corte di assise di Brescia, fu tutto teso a colmare le lacune vistose dell’istruttoria predibattimentale. Le indagini della polizia erano state palesemente depistate. I numerosi testi ascoltati in udienza, malgrado il calzante contraddittorio delle parti e la larga disponibilità della Corte, diedero prova di una disarmante omertà fatta di amnesie e smemoratezze, tanto che oltre un certo livello si incontrava il vuoto, il nulla, con il risultato che l’ideazione della strage apparve come la stravagante immotivata follia di pochi relitti di ambienti emarginati. La condanna che seguì lasciò l’amara convinzione che una impenetrabile barriera avesse protetto anche per questa, come per le altre stragi, i veri ideatori di un disegno così criminale.

Ancora oggi, a tanti anni di distanza, nonostante l’accanimento delle indagini che sono seguite, la verità su una vicenda così drammatica e conturbante, è avvolta nel mistero.

Renato Ballardini

Quel giorno, a Brescia

Brescia, 1974

Tra il ‘68 e il ‘74, a Brescia, gli scontri tra il Movimento Studentesco e Lotta Continua da una parte e i “fasci” dall’altra erano quotidiani. Le imponenti manifestazioni dove studenti, operai e sindacati marciavano a braccetto al grido di “Fascisti, carogne, tornate nelle fogne” facevano tremare le vene ai polsi, anche solo guardandole dalla finestra, perché sapevi che di lì a poco sarebbero iniziati gli scontri, le cariche della polizia, i lacrimogeni, i fermi. E sapevi che quanto più altisonanti e corali erano gli slogan dei manifestanti, tanto più aspra sarebbe stata la violenza dello scontro.

Ma, nonostante il clima pesante, finiva quasi sempre tutto lì, con le schedature, le persone rilasciate, i ragazzi del Movimento che tornavano alle loro attività organizzate, nelle biblioteche universitarie, nelle librerie, nelle sedi dei movimenti, e i fascistelli sullo spider al bar.

Piazza Fontana, Peteano, erano lontane, troppo grandi per riguardare noi, piccola città di provincia, pur con le ferriere di Lumezzane e il tondino che usciva ogni notte nel bagliore infuocato delle colate di ferro. Noi ci si conosceva tutti, quelli di destra, al bar dei fighetti in Castello, e quelli di sinistra, nella libreria del Movimento in via S. Francesco.

Bologna, 1980

Poi quella mattina del 28 maggio l’esplosione, sorda, tonante. Un fragore troppo deflagrante per essere un terremoto, ma che come un terremoto aveva spostato gli oggetti delle case nella cintura attorno a piazza Loggia nel raggio di 2 km. Noi studenti di Medicina ci radunammo al pronto soccorso: chi salì sulle ambulanze, chi rimase a passare bende, lacci emostatici, siringhe, con le mani tremanti e la paura di veder arrivare un amico, un parente. Nessuno parlava, terrei in volto passavamo parola sul da farsi. Per dodici ore non abbiamo mai pensato a bere o a mangiare. Centodue feriti e otto morti.

Facile ora dire “siamo andati oltre”, non l’ho mai detto e non lo dirò. Due anni dopo mi sono sposata, probabilmente sono fuggita, forse in cerca di risposte, al riparo sulle montagne.

Milano, 1973

Piazza Loggia, piazza Fontana, la stazione di Bologna, sono voragini dentro le quali, a mio avviso, è sprofondata la democrazia. Più tardi, le stragi di mafia saranno la conferma del fatto che lo Stato, nonostante il proliferare di ricostruzioni indipendenti e coraggiose, ha continuato a inabissarsi coltivando patti scellerati, facendo prevalere “ragioni di Stato” che hanno impedito il tentativo di far luce, di capire e dipanare una intricata matassa con troppi colpevoli e troppi morti.

Alla fine gli italiani hanno finito per alzare le spalle nei confronti di ruberie, affari, cricche, caste. Quale colpa può essere considerata più grave se non “il nulla” sulla la morte violenta di decine di vittime innocenti? Il resto sono semplicemente conseguenze.

Elena Baiguera Beltrami

Storie da ricordare

Capaci, 1983

A più di quarant’anni di distanza, quasi nessuno dei processi per le stragi degli Anni di piombo si è concluso con l’individuazione dei responsabili. Anzi, assistiamo oggi a nuove revisioni, sia dei processi che dei fatti storici, e ad assoluzioni che lasciano l’amaro in bocca e un senso di infinito, doloroso vuoto. “Non è stato nessuno”: per quante volte non è stato nessuno?

Nel casi più fortunati, i colpevoli sono stati riconosciuti in figure di secondo piano o meschini rei confessi. Chi però ha vissuto con intensità il periodo stragista, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, fino alle bombe mafiose degli anni ‘90, porta negli occhi e in un’ombrosa zona del petto lo sguardo livido e muto dello Stato, complice e colpevole - quando non mandante - di tragedie pianificate. Probabilmente non c’erano allora, e non ci sono oggi, buoni e cattivi. Ma più buoni e più cattivi, questo sì. E pure vittime e carnefici.

Dopo quarant’anni Pinelli e Calabresi si confondono in un’unica figura dai contorni indefiniti: quella del martire. E così si mescolano, in una sola cornice, il terrorismo rosso e quello nero. Ma davvero tutte le vittime sono uguali? Ha un senso, storico ed etico, l’intersezione tra le parti?

Non è ancora il momento, se mai lo sarà, di stendere il velo sul passato e la sua autenticità. Perché il rischio in più, oggi, è che si perda memoria di un irrisolto; che la percezione falsata della realtà possa trasfigurarne le poche verità (processuali) accertate.

Il rischio, in altre parole, è che la verità giudiziaria non ancora trovata lasci il posto ad una verità fantasiosa e parziale o, peggio, all’oblio.

La memoria vive anche di simboli. Le colonne ferite di piazza della Loggia, che paiono ancora strillare nel silenzio ottundente che segue l’esplosione. O l’orologio della stazione di Bologna, fermo alle 10.25, l’ora della strage (fino al 2001, quando le Ferrovie dello stato lo fecero ripartire con l’imbarazzante giustificazione che l’ora sbagliata potesse confondere i passeggeri in partenza).

Oggi più di ieri, di fronte a un ricambio generazionale che rischia di far sfuggire il filo della storia dalle dita, è fondamentale celebrare i simboli e attraverso essi ricordare, con serietà e rigore. Non lasciare che la stanchezza prevalga. E pretendere, una volta di più, giustizia.

Luca Facchini

Ma la democrazia ha vinto

Genova, 2001

Il volto oscuro dello Stato. Anche di uno stato democratico. Questo hanno rappresentato le stragi che dal ‘69 all’80 hanno insanguinato l’Italia. Ma poi anche oltre, con le sotterranee complicità con le stragi di mafia (senz’altro nell’omicidio di Paolo Borsellino) e da ultimo, nel 2001, con Genova e l’inusitata macelleria alla Caserma Diaz.

Una parte dello Stato che è contro i cittadini, contro la democrazia. Come in un film americano. Ma non siamo ad Hollywood, i cattivi non vengono puniti, non vengono nemmeno individuati. Perché lo Stato nel suo insieme copre, difende, lupo non mangia lupo. Non bastano i galantuomini ai suoi vertici, Pertini, Ciampi, Napolitano... il sistema ha le sue omertà. Questa è la tristissima conclusione.

Non è però la sola. Penso che dopo tutti questi anni se ne possa trarre un’altra di ben altro segno. Non hanno prevalso.

Su questo c’è chi pensa diversamente. Chi ritiene che la stagione del cambiamento - in una parola schematica, il sessantotto - contro cui era diretta la strategia stragista (non a caso iniziata nel ‘69) si sia inaridita proprio a causa degli anni di piombo, stragi più terrorismo. No. Credo che sia una risposta consolatoria per reduci nostalgici. Il ‘68 finì perché non fu in grado - nella scuola, sui luoghi di lavoro, nell’economia, nella politica - di attuare le proprie rivoluzionarie promesse: una società pienamente ugualitaria.

Riuscì invece a incidere sul costume, sugli orientamenti culturali dell’intera società, ottenendo risultati profondi anche se certo non definitivi: meno autoritarismo, più welfare, più dignità per i lavoratori, fine del tabù sessuale, più spazi per le donne. E anche difesa strenua della democrazia: ad ogni strage seguì un lavoro ampio e certosino di indagine indipendente, che evidenziò e pubblicizzò nefandezze e collusioni; e rese le stesse stragi inutili. Sconfitte dalla stessa opinione pubblica che volevano, con la violenza, manipolare. Questa è stata una grande, bella, positiva lezione di una pur orrida pagina di storia.

Ettore Paris

 

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Commenti (1)

Alex

Ebbene sì, anche in una piccola città di provincia (anche se BS oggigiorno è qualcosa di più) può accadere e regolarmente accade il peggio. Ci crediamo lontanti ed al riparo dagli orrori e dalle nefandezze altrui ma da un momento all'altro ne possiamo essere travolti. Ogni alzata di spalle ci avvicina paurosamente a ciò che appare così improbabile.
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