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Una madre genetica, una “portatrice” e due papà

Dopo molti dubbi, due partner gay decidono di diventare genitori: il lungo percorso, le soddisfazioni e le preoccupazioni. Da Una Città, mensile di Forlì.

Barbara Bertoncin

Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti vivono a Roma assieme ai figli Lia, di quasi sei anni, e Andrea, tre e mezzo. Sono impegnati in Famiglie Arcobaleno, associazione di genitori omosessuali.

Com’è maturata la decisione di diventare genitori?

Tommaso. Ci abbiamo ragionato per anni. Eravamo abbastanza tranquilli che una coppia dello stesso sesso potesse tirare su bene un bambino; le preoccupazioni erano di carattere sociale, culturale. All’inizio ci siamo soffermati sulla possibilità di avere figli con amiche, ma ci siamo presto orientati verso la “gestazione per altri” o, come si dice in Italia, “utero in affitto”. In questo caso a preoccuparci era la dimensione economica e il possibile sfruttamento della donna. Dopo un primo incontro con l’agenzia americana, c’è stato un intervallo di 4 anni, poi abbiamo deciso.

Gianfranco. Non capivamo le motivazioni che spingevano una donna a portare avanti una gravidanza per altri. Poi scopri che, cambiando i termini della questione... Voglio dire, Nancy, la persona che ha portato i nostri bambini, non si percepisce come madre, ma come una che aiuta una coppia sterile mettendo a disposizione il proprio corpo. Queste donne non considerano quel bambino il proprio figlio, tanto più che spesso la “portatrice” non è la madre genetica. Parliamo comunque di donne consapevoli di quello che stanno facendo: non sono donne bisognose che vendono il proprio utero per risolvere una questione economica, non sono mosse dal bisogno.

Tommaso. Il motivo per cui noi e sostanzialmente tutti i soci di “Famiglie Arcobaleno” andiamo in Canada o negli USA è che lì ci sono queste garanzie. In Canada è illegale dare un compenso alla portatrice, però è accettato il fatto che si possano dare dei rimborsi per le spese che affronta. Non sono comunque compensi tali da costituire l’incentivo determinante. Quando ci rimproverano di comprare la gravidanza, rispondiamo: “Ma tu faresti un bambino per altri per questa cifra?”. Non andiamo in India o in certi paesi dell’Europa orientale, dove quella cifra cambierebbe la vita di una persona. C’è chi sostiene che lì il tuo denaro sarebbe più utile... Si entra in una zona eticamente scivolosa in cui non sai fino a che punto queste donne siano veramente libere di scegliere; possono esserci pressioni da parte della famiglia, del marito... insomma, quello sì che è utero in affitto.

Dicevate che le donne coinvolte sono quasi sempre due, perché?

Tommaso. C’è una donatrice d’ovulo e una portatrice. Per vari motivi. C’è un motivo di ordine medico: una donatrice d’ovulo fa una terapia ormonale per donare più ovuli, la portatrice ne fa una per essere più ricettiva nel momento dell’impianto. Se fosse un’unica donna, dovrebbe sottoporsi a un doppio trattamento. Poi, di solito, sono tipi di donna diversi. Le donatrici tendono a essere giovani, magari ancora senza figli, mentre le portatrici sono meno giovani e hanno già avuto gravidanze. Infine c’è un motivo giuridico: negli Stati Uniti le portatrici non hanno diritti sul bimbo, invece la portatrice che è anche donatrice ha una posizione legale meno chiara.

Nancy chi è?

Tommaso. È un’infermiera, una donna di carattere, molto comunicativa, che fa barca a vela, roller skating, con 4 figli che ha tirato su quasi da sola. È una californiana cresciuta in una cittadina segnata dalla controcultura degli anni ‘60. Da tempo voleva fare una gestazione per altri, ma aveva aspettato di essere completamente autosufficiente perché voleva la certezza che non ci fosse una spinta di tipo economico. È molto legata a un cugino gay che le ha parlato spesso del dolore di non aver potuto essere padre.

Si può parlare di una sorta di famiglia allargata?

Gianfranco. È un rapporto non codificato, che va inventato. Nancy non è un’amica, forse di più, forse di meno. Non è una persona di famiglia, ma c’entra molto con la nostra famiglia: è complicato dire che tipo di relazione ci sia. Loro, i bambini, sanno che lei è la persona che li ha portati.

Tommaso. Anche nell’ambito delle Famiglie Arcobaleno si sta riflettendo sui termini da usare; mancano “le parole per dirlo”, sono rapporti inediti. Nancy è cattolica: quando è venuta a Roma, si è andata a confessare a San Pietro. Le ho chiesto se avesse confessato anche quel che aveva fatto per noi. Risposta: “No, che c’entra?”

In caso di morte o di separazione che succede? Vi siete tutelati?

Tommaso. Nel testamento indichiamo un tutore. In realtà dovremmo fare di più: si può, ad esempio, raccogliere dei documenti in cui parenti e conoscenti attestano che siamo una coppia di lunga durata e che il bambino si sente figlio di entrambi. Col contratto d’affitto o le bollette si può documentare la convivenza. Si possono fare tante cose per far sì che, in caso di morte, il tribunale decida di dare il bambino al partner. Ma il tribunale non è obbligato, perché se muore il genitore biologico i nostri figli appaiono orfani.

Gianfranco. A decidere della sorte del bambino è un giudice tutelare che deve appunto nominare un tutore. Nel suo testamento il genitore legale propone l’altro genitore come tutore e fornisce una serie di pezze d’appoggio: le dichiarazioni di parenti, i conti in banca cointestati, insomma tutte le prove che il bambino ha una continuità affettiva col genitore non legale. I nostri avvocati dicono che è raro che il giudice non tenga conto delle indicazioni del genitore legale, però non si sa mai. Quello che invece può succedere è che la coppie si separi e lì non c’è carta che tenga: se il genitore legale decide che l’altro non ha più titolo per vedere il bambino, ha tutti i diritti di farlo. Paradossalmente, sulla morte siamo abbastanza coperti, non così nella separazione.

Familiari e amici come l’han presa?

Tommaso. Alle famiglie l’abbiamo detto a cose fatte, quando Nancy era incinta al terzo mese. Altri ne parlano prima ai genitori, per prepararli, ma per noi ha funzionato meglio dare la cosa per fatta. Parlare di questi argomenti su un piano teorico desta scandalo, discussioni. Se invece si parte dalla realtà - c’è questo bambino, è un bambino bellissimo e sta bene - tanti nodi si sciolgono immediatamente. Oggi tanti ci danno appoggio, sostegno, affetto e magari non sanno neanche se sono d’accordo con quello che abbiamo fatto.

Gianfranco. Parlarne in astratto scatena fantasmi. È un po’ come quando viene sbandierato lo spauracchio del matrimonio gay che se passasse segnerebbe la fine della civiltà occidentale. Invece quando poi conosci le persone e vedi questi bambini, quando insomma ci si confronta con la situazione concreta, tanti pregiudizi cadono e si scopre un’inattesa disponibilità all’ascolto e al confronto.

I bambini cosa sanno?

Tommaso. Conoscono Nancy e sanno che sono stati nella sua pancia. Sanno che per fare il bambino ci vuole il semino, l’ovetto e la pancia; i maschi hanno solo il semino, le femmine hanno l’ovetto e la pancia, quindi a noi servivano un ovetto e una pancia, allora abbiamo chiesto a due signore di aiutarci. Non è stato difficile.

Gianfranco. Man mano che crescono aggiungiamo delle cose. Ad ogni stadio del bambino racconti la verità così come la può capire. Per Lia ora la storia è diventata più complessa, è entrata nella fase della comprensione che siamo due papà, ma che uno dei due non ha le tutele legali. Sono fasi delicate. È anche per questo che si sta in “Famiglie Arcobaleno”.

A scuola come sta andando?

Tommaso Il nido e la materna sono più facili. Vedremo alle elementari. Bisogna lavorare molto con la direttrice, e poi con gli insegnanti. Quando ti dicono: “Non c’è nessun problema, per noi i bambini sono tutti uguali”, ecco è il momento di preoccuparsi! Questi bambini non sono uguali agli altri e quando a scuola diranno: “Io ho due papà”, non bisogna smentirli.

Gianfranco. Come Famiglie Arcobaleno facciamo anche della formazione con gli insegnanti e interveniamo nelle scuole. Diamo sempre la colpa agli insegnanti, alla scuola che non capisce, ma bisogna anche capire chi improvvisamente si trova con bambini con due mamme o due papà e magari non sa niente di tecniche di fecondazione assistita, di cos’è l’omosessualità, non sa se un bambino possa vivere bene con due mamma o due papà. Non basta un colloquio, bisogna fare un lavoro. Per esempio, le maestre di nostro figlio hanno improvvisamente reagito dicendo: “Ok, non si dice più la parola mamma”, cioè hanno abolito la parola mamma! Oppure avevano deciso che, mancando la figura femminile, con Andrea dovevano essere più affettuose. E sappiamo di un paio di famiglie che hanno ritirato i bambini da una scuola perché c’eravamo noi. Insomma, tu dici tre parole e pensi di aver fatto assimilare la cosa, ma non è così. Devi lavorarci molto.

Immagino che la domanda classica sia come cresce un bambino senza la figura materna...

Tommaso. Ci siamo documentati, c’è una valanga di studi psicologici e non emergono problemi particolari. Ormai conosciamo un paio di centinaia di famiglie omogenitoriali e i bambini vengono su bene. Non crediamo nella necessità della figura materna o paterna. Ne troviamo conferma anche in indirizzi psicologici che al massimo parlano di necessità di una funzione di accoglienza e di una funzione di contenimento, che però possono anche scambiarsi fra le persone nel corso della giornata. Quando ci viene posta questa domanda, io rispondo: “Va bene, cos’è che la figura materna fa o dà o è?”. Alla fine viene fuori che è fatta di cose che noi comunque facciamo o diamo. Il problema è piuttosto l’aspettativa della figura materna, cioè il fatto che il bambino cresce e si trova in un mondo che gli dice che ci dovrebbe essere una madre.

In una fase come quella adolescenziale, in cui il corpo cambia, per una bambina forse non avere quella confidenza madre-figlia...

Gianfranco. Non so cosa succederà. Penso che riusciremo a trovare il modo di parlare anche di questo. Non credo che ci siano argomenti tabù, che un padre e una figlia non possano parlare di mestruazioni o di altro. Se poi avesse bisogno di parlare con una donna, ci sono le mie sorelle e le mamme dell’associazione.

Tommaso. Piuttosto mi preoccupa il difficile equilibrio tra la necessità di essere visibili, di impegnarci apertamente per migliorare la condizione dei nostri figli, e il timore di esporli troppo. Oggi ho parlato per tre ore con degli specializzandi in psicologia. Loro stessi mi hanno confermato che c’è ancora molta omofobia tra di loro. A me è venuto da pensare: se passassero mezz’ora coi miei figli, quanti nodi si scioglierebbero! Lia e Andrea in fondo sono il nostro principale argomento a favore. Però non posso fare dei miei figli una sorta di spettacolo itinerante. Ma ciò che conta è che li vedo felici. Stanno visibilmente bene, se qualcosa non funzionasse, se avessimo commesso qualche errore, si vedrebbe. Ovviamente ne abbiamo fatti, ma non di catastrofici.