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QT n. 4, aprile 2012 Seconda cover

I cattivi ragazzi

Spaccio, risse, soldi facili (ma pochi), una vita precaria, con poco presente e nessun futuro. Viaggio tra i giovani tunisini di recente immigrazione, tra sogni e tristezza.

Trento, 20 marzo scorso, Piazza Dante. Una situazione di tensione degenera, e ne viene fuori una rissa tra africani del nord e subsahariani. Come conseguenza, nei giorni successivi viene espulso un tunisino di 21 anni con precedenti per spaccio. Questa è la più recente delle molte notizie di cronaca su microcriminalità ed ordine pubblico legate all’immigrazione comparse negli ultimi tempi sui giornali trentini. Delle molte nazionalità menzionate, quella tunisina è sicuramente una di quelle coinvolte più spesso. Ad esempio, su richiesta dei preoccupati abitanti della zona di Santa Maria Maggiore, qualche mese fa le forze dell’ordine sono intervenute per “moderare” i comportamenti di un gruppo di tunisini che lì stazionava stabilmente, causa happy hour universitari. Situazioni di questo tipo possono portare a commenti come quello della Lega Nord, che compara il centro di Trento al Bronx e chiede mano dura e repressione. Possono (e dovrebbero), però, anche indurre un desiderio di approfondimento, perché le comunità immigrate sono molto più complesse di quanto non possa apparire dagli articoli di cronaca. E perché le situazioni più difficili all’interno di esse andrebbero comprese, se si vogliono giudicare.

Innanzitutto, le cifre. Secondo i dati del centro informativo per l’immigrazione (CINFORMI), alla fine del 2010 erano 1.750 i tunisini residenti in Trentino con regolare permesso di soggiorno. Il 60% di essi erano uomini, residenti in maggioranza nel capoluogo e perlopiù impiegati (in qualche caso in forma autonoma) nelle costruzioni e nella ristorazione. La loro storia migratoria inizia negli anni ‘90, quando l’immigrazione era un fenomeno quantitativamente più governabile, non era ancora il principale pretesto della speculazione politica e il business dei barconi nel Mediterraneo era meno sviluppato. Molti di loro avevano iniziato a lavorare irregolarmente, sfruttando poi la legge Martelli per sistemare la propria posizione.

Lotfi, esercente di un kebab del centro, ha preso parte a questa prima ondata migratoria e, come la maggioranza di chi è arrivato in quegli anni, ha raggiunto un ottimo grado di inserimento nella società trentina. Inserimento che ha permesso a lui come a tanti altri di far arrivare dalla Tunisia anche la moglie, con cui ha oggi quattro figli, italo-tunisini in tutto tranne che nel passaporto.

“Sono qui a Trento da 22 anni. - racconta - Arrivare in Italia e regolarizzarsi non è stato semplice, ma lavorando molto sono riuscito a sistemarmi. Come tanti altri stranieri arrivati in quegli anni, sento di aver contribuito al benessere di questa provincia. Anche per questo credo che la società trentina sia molto più aperta verso gli stranieri di quanto non fosse vent’anni fa. Oggi lavoro 15-16 ore al giorno e sono soddisfatto, perché spero di regalare un futuro ai miei figli”.

Lotfi è molto orgoglioso del suo percorso di integrazione, ma non si impressiona a sentir collegare tunisini e criminalità. Una posizione di aggressività nei confronti di chi è accusato di rovinare l’immagine della propria comunità potrebbe essere prevedibile, ma non si ritrova nelle sue parole ed in quelle di altri esercenti tunisini. Sembra invece esserci una consapevolezza di quanto le cose siano cambiate. Cambiate per chi è qui da tempo, come mi dice un altro commerciante: “In vent’anni non è mai stato così difficile tirare avanti la propria attività in Italia. Sono obbligato a restare, perché perderei la pensione, ma se potessi, con questa crisi tornerei a casa”.

Ma cambiate soprattutto per chi, senza poter beneficiare di ricongiungimenti familiari ed altre forme di immigrazione regolare, prova a farsi spazio oggi. “Quando sono arrivato io era difficile - continua Lotfi - ma ora lo è di più. Non si trovano più visti, si deve arrivare rischiando la vita sui barconi. Una volta arrivati, poi, di lavoro non ce n’è. Ce la fa soltanto uno su cento, e questo convince gli altri a provarci, senza successo. A me non piace la criminalità di nessun tipo, ma so bene che la criminalità nasce dove mancano casa e lavoro”.

“Dormivamo in case abbandonate”

Le parole di Lotfi sono confermate da chi ha vissuto l’esperienza in prima persona. Merzuk è arrivato a Trento nel 2005 da Kasserine, cittadina del sud del paese dalla quale proviene gran parte dei tunisini arrivati qui a partire dal 2004. È riuscito a regolarizzarsi sposando una ragazza italiana, e ciò gli ha permesso di accedere anche al mondo del lavoro. Ma il suo primo anno, da clandestino, non è stato per niente facile.

“Avevo vent’anni e ho speso circa 1500 euro per arrivare a Lampedusa in un barcone, perché avevo un cugino a Trento che mi aveva promesso di ospitarmi e di aiutarmi ad organizzare una vita qua. Era il mio unico canale di informazione sull’Italia. Arrivato dopo molte difficoltà (inclusa la reclusione in un CPT siciliano), ho scoperto che mio cugino dormiva in una macchina abbandonata. Da allora, con tanti altri connazionali, dormivamo in case abbandonate. Senza documenti, era impossibile trovare casa o lavoro. Io non sono mai entrato davvero in quel giro, ma tanti miei amici spacciavano per guadagnare qualcosa. Era l’unico modo di comprarsi i vestiti. Adesso sono riuscito a farmi una vita, ma delle persone che erano con me solo altre due o tre ce l’hanno fatta, per matrimonio o riuscendo ad infilarsi nella moratoria per colf e badanti. Degli altri, ancora senza documenti, alcuni sono tornati indietro delusi, alcuni sono morti. La maggioranza continua ad entrare ed uscire dal carcere e a vivere senza casa e senza lavoro”.

Certo, anche le inclinazioni personali di molti vengono a sommarsi ad un contesto estremamente difficile nel mettere a repentaglio il tentativo di cambiare la propria vita. La moglie di Merzuk, Milena, sociologa e per anni operatrice del Punto d’Incontro, conosce bene questi argomenti: “I ragazzi che vengono qui sono giovani, tra i 17 ed i 20 anni. Vengono da un paese dove sistemare le cose a cazzotti non è visto male quanto qui; inoltre, quelli che arrivano in Italia sono i più intraprendenti, i meno timidi tra i loro coetanei, perché non è da tutti accettare di rischiare la propria vita su un barcone. Non scappano dalla fame, ma dalla disoccupazione e da alcune rigidità. Per esempio, se in Tunisia vogliono uscire con una ragazza devono fidanzarsi ufficialmente. Il loro progetto migratorio non è ben definito, sono giovani che cercano la libertà come se la sono immaginata in Europa. Ciò si vede da quelle che sono le loro priorità: ragazze, discoteche, vestiti firmati, divertimento. A parte alcuni insospettabili, è difficile che in questo modo riescano a mettere da parte un po’ di denaro. Ci sono poi molte ansie che aumentano questa difficoltà a gestirsi. C’è l’ansia relativa alla loro condizione di emarginati, socialmente ed economicamente, che si aggrava con l’emergere delle dipendenze, nelle quali è facile cadere in queste circostanze. Per loro questo è particolarmente pesante, perché quando bevono o fumano non riescono ad impedire che la loro educazione musulmana li faccia sentire in colpa. Poi c’è l’ansia più grande, quella relativa alla clandestinità.Alla loro partenza non credevano che l’Italia sarebbe stata rose e fiori. Ma nemmeno si aspettavano di andare a dormire in case abbandonate, o che l’assenza di documenti potesse rendere le cose così complicate, facendoli vivere in costante apprensione”.

Quando ti manca quel pezzo di carta

Ed è proprio l’assenza di documenti, condizione quasi inevitabile per un tunisino che riesca oggi a raggiungere l’Italia, a creare i problemi maggiori: “Non posso lavorare, anche in nero non mi vuole prendere nessuno. Non posso avere una casa. - mi dice un ragazzo di DjebelJelloud, il quartiere periferico di Tunisi che, negli ultimi due anni, sembra avere soppiantato Kasserine come luogo di origine dei tunisini che arrivano a Trento - E devo anche stare sempre attento quando giro per strada. Ho paura di finire in carcere perché mi manca un pezzo di carta”.

Il fatto che profughi di altre nazionalità arrivati sugli stessi loro barconi siano stati beneficiari di trattamenti burocratici migliori è, per questo, una forte causa di malcontento e tensione tra diversi gruppi. “Non riesco a capire perché a loro si e a me no. Abbiamo rischiato la vita tutti per venire qua, e ora mi chiedo se ne valeva la pena”.

Senza documenti, senza casa e lavoro, bisogna avere una grande forza di volontà per non inserirsi nella rete dello spaccio, che è prevalentemente di hascisc e cocaina. Questa è sicuramente la fonte di guadagno più a portata di mano, e spesso l’unica possibile, soprattutto ora che la crisi sta eliminando le poche opportunità di lavoro nero rimaste. In tanti di questi ragazzi spacciare può generare l’esaltazione per dei soldi all’apparenza facili da spendere in vestiti di marca e divertimento.

Questo non vuole però dire che la percezione dei rischi e delle poche prospettive sia assente, e sono in tanti a dire “se potessi, questa roba non la venderei. Sappiamo tutti che un lavoro onesto sarebbe migliore”. Anche perché, ai livelli nei quali opera la maggior parte dei tunisini, lo spaccio è un’attività che presenta presto il conto, come mi spiega un altro ragazzo: “Sono uscito dal carcere da cinque giorni, dopo essermi fatto due anni per spaccio. Nei giornali si parla sempre dei tunisini spacciatori perché siamo i pesci piccoli, quelli che vengono sempre catturati. Degli italiani, quelli che ci danno la droga e che non dormono nelle case abbandonate, di loro non si parla mai”.

Sembra insomma che le condizioni che hanno permesso, a partire dagli anni ‘90, di creare in Trentino una comunità tunisina economicamente e socialmente accettata siano venute meno. La maggior parte dei tunisini che sono arrivati a Trento negli ultimi anni non è riuscita ad uscire dal circolo della clandestinità. Molti di questi ragazzi sono, senza dubbio, dei bulletti dai modi un po’ violenti, con voglia di divertirsi, e dediti ad attività illegali, attraverso le quali alcuni si illudono di potersi creare un loro spazio in città, solo per essere rimessi al loro posto, all’ultimo gradino di una società un po’ ipocrita.

Uno sguardo approfondito non può infatti non notare come essi siano impotenti nei confronti di giri d’affari molto redditizi (per altri) dei quali sono parte integrante, quello dei barconi della disperazione e quello della droga, e vittime di una legislazione che sembra creata apposta per generare le disfunzioni che alimentano questi business. In questo contesto, la speranza più grande è forse che la primavera araba risolva alcuni problemi alla fonte, disincentivando un’avventurosa e maldestra ricerca di prospettive dove prospettive non ce ne sono.

Ma, anche su questo punto, c’è molto scetticismo: “Hanno fatto bene a fare la rivoluzione, l’anno scorso - mi dicono in tanti - la situazione era insostenibile. Ma adesso sembra già tutto tornato alla normalità. Il nuovo potere non è così diverso dal vecchio”.

Certo, si potrebbe provare a migliorare qualcosa anche qui: fare leggi sull’immigrazione più coerenti, magari chiedersi se il proibizionismo sulle droghe stia portando a dei buoni risultati, e per chi. Ma qui siamo nel campo delle utopie.

Internet Point

È sera, le nove, torno a casa. In via Prepositura mi devo fermare: c’è un’autoambulanza con gli abbaglianti accesi, a fianco una gazzella dei carabinieri, dietro un’altra. Passo, parcheggio e torno indietro a piedi: siamo sotto casa mia, cosa è successo? Arrivo davanti all’Internet Point: c’è della confusione, attraverso i vetri si vedono gli infermieri affaccendarsi attorno a un uomo per terra, su una lettiga. Lo portano sull’ambulanza, ha il volto terreo nonostante la pelle scura. Mi rivolgo a un carabiniere: “Sono un giornalista, cosa è successo?”

“Stiamo anche noi cercando di capire”.

Tra la gente sul marciapiede spicca un signore: bengalese, distinto, una giacca a vento bordeaux, pantaloni marron, maglioncino in tinta. Parla pacato e sicuro, in buon italiano, si rivolge con tranquillità ai carabinieri. È il padrone dell’Internet Point, arrivato lì da un altro negozio quando ha saputo del parapiglia: un tunisino - secondo la successiva ricostruzione ufficiale - rifiutatosi di pagare i due euro di tariffa, aveva dato in escandescenze, per poi aggredire con un coccio di bottiglia i carabinieri e infliggersi delle ferite. Era l’uomo dal volto terreo portato via in lettiga.

Ma non è finita: arriva un giovane, con la divisa da piccolo spacciatore tunisino, luccicanti scarpe da tennis nuove, tuta da ginnastica nuova, completo da fighetto di palestra, ma si capisce subito che è l’unico vestito che ha. Si rivolge a muso duro al bengalese e ne riceve poche parole, tranquille eppure sprezzanti. I due sono di due mondi opposti.

“Avete visto? Quel ragazzo ha minacciato il signore...” dico a un carabiniere.

“No, non ho visto...”

Il ragazzo è entrato nel negozio, mi rivolgo al bengalese, la prendo alla larga ma sbaglio: “È un suo amico quel ragazzo?”

“Mio amico? - ironia amara e sprezzante - No di certo”.

Lascio perdere, anche se sono un po’ preoccupato. Il signore sale sulla macchina dei carabinieri, immagino per andare a deporre.

Torno a casa. Dopo un’ora sento dalla strada urla e schiamazzi. Non ci faccio caso.

Leggo il giorno dopo sui giornali: i giovani tunisini erano tornati a vendicare l’affronto: aver chiamato la polizia. E i bengalesi l’avevano richiamata.

Due mondi opposti.

E. P.