Sogno di una notte di mezza estate
Shakespeare fra il “di” e il “da”
Sarebbe bastato scrivere “Sogno di una notte di mezza estate” “da” Shakespeare, invece che “di” Shakespeare, e non ci sarebbe stato nulla da obiettare. De gustibus non disputandum est. Si prende un testo classico, lo si rielabora, se ne dichiara la fonte e se ne fa un (altro) spettacolo. Le cose vanno diversamente se invece nel programma di sala si legge: “Uno spettacolo che, senza tradimenti al testo originale, ne reinventa il linguaggio e lo smarca dal rischio della convenzione”.
Nella comunicazione tra regista, attori e pubblico, ciò che sta prima e intorno allo spettacolo non è ininfluente. Se il programma di sala è un “para-testo”, ossia un complemento (promozionale) del testo teatrale, nella valutazione complessiva vanno considerate sia le attese suscitate nel pubblico che le impressioni a spettacolo finito. Il problema non è stabilire se e quanto lo spettacolo sia stato piacevole. Siamo in un teatro, per rilassarci, per divertirci. Se l’obiettivo (nostro, loro) è raggiunto, perché discuterne?
Il problema è che la televisione cerca di divorare il teatro. Per richiamare spettatori, si rende televisivo lo spettacolo teatrale. Gioele Dix non ha chiesto (imposto) ai suoi attori e attrici di recitare Shakespeare, ma innanzi tutto di recitare se stessi, cosa che è ben diversa. Sicché, invece di mostrarci quanto bravi ed eclettici possono essere degli attori televisivi, è stato più facile (forse inevitabile) rendere televisivo lo spettacolo. Pregiudizi? No, ragion veduta. Parliamone.
Il cabaret, per definizione, deve far ridere. Le commedie shakespeariane (per tacer delle tragedie) non sono mai uniformi: William era un poeta, i suoi testi hanno momenti lirici magnifici, alternati a momenti di becera comicità e altri di estrema serietà tragica. Nel “Sogno” di Gioele Dix è emersa, drammaticamente, l’antitesi insanabile fra poesia e cabaret. Durante lo spettacolo s’è visto infatti che la comunicazione privilegiava la parodia sulla poesia, per suscitare simpatia (nei confronti dei noti attori) e risate (soprattutto a danno del testo). I momenti lirici, ben distinti e percepibili nell’originale shakespeariano, sono stati regolarmente ridicolizzati - degradati - per manifesta volontà (o incapacità) di impostare e reggere una comunicazione non-comica. Era sufficiente un cambio di registro, un’alterazione vocale, un gesto o una smorfia dell’attore stesso o di quelli intorno, rivolti al pubblico, per sottolineare la distanza ironica dal momento di poesia.
Allora ci si chiede: perché scomodare Shakespeare e sprecare la poetica e raffinata cornice del “Sogno”, per arrivare alla storia di Priamo e Tisbe, trasformata in memorabile e spassosissima farsa?
Il problema del teatro attuale, serio e tangibile, sta probabilmente nel fatto che il sistema televisivo si nutre di capitali (provenienti anzitutto dal gettito pubblicitario) che il teatro non possiede. Cosicché i rinforzi chiamati dalla televisione per riempire i teatri non formano spettatori teatrali, ma confermano il gusto televisivo del pubblico, che a casa continuerà a seguire i propri beniamini e gli spot pubblicitari, identificando le commedie di Shakespeare (e tutta la tradizione teatrale) con Zelig e dintorni. D’altronde, il pubblico crede di comandare e applaude. Al diavolo, come sempre, la critica.