Storia di Trento dall’antichità all’età contemporanea
Città inconsistente? A cura di Giuseppe Gullino. Testi di Alfredo Buonopane, Emanuele Curzel, Ugo Pistoia, Mauro Nequirito, Vittorio Carrara.
È allettante il campo d’indagine che propone Emanuele Curzel, coautore di questa “Storia di Trento”: l’evoluzione nei secoli della città intesa come urbs, nel senso di agglomerato di edifici, e in parallelo come civitas, nel senso di insieme consapevole di persone. Purtroppo però il libro ci sembra in gran parte fallire gli obiettivi.
Intendiamoci, il lavoro storico c’è, e se ne vede traccia, anche troppa; nel senso che tutta una serie di minuziosi elenchi (i trentini che prestarono servizio militare con Roma, e in quali legioni; oppure abati e priori succedutisi nelle millanta pievi e congregazioni religiose) sono significativi, anzi preziosi per lo storico, ma irrimediabilmente appesantiscono un testo che vuole essere divulgativo. E questo inoltre a scapito della sintesi, del quadro complessivo, dei movimenti di fondo nella pur piccola realtà cittadina.
L’urbs, si diceva. Viene riportata la costruzione di ogni palazzo significativo, ma si fanno solo vaghi e sbrigativi (quando va bene) cenni ai grandi progetti, anche se solo in parte realizzati, di trasformazione urbana: la città rinascimentale voluta da Bernardo Clesio con lo spostamento di vie e la bonifica del Fersina; la città ottocentesca con lo sfondamento delle mura, la rettifica dell’Adige, l’urbanizzazione programmata di nuove aree; i Prg del dopoguerra, che hanno cercato di disciplinare un’impetuosa decuplicazione dell’area urbana. Di quali spinte economiche, speranze, interessi, progettualità vi siano stati dietro tali radicali trasformazioni, il libro nulla dice.
La civitas. Una città piccola, troppo piccola (meno di 5000 abitanti fino all’800); un’economia povera, solo il vino e, per un certo periodo, le miniere, altrimenti solo economia di sussistenza; rapporti scarsi e certo non egemonici con il territorio circostante; e quindi una nobiltà gretta, un ceto patrizio esangue, una borghesia inconsistente, insomma, oltre il ruolo preponderante del principe vescovo, una classe dirigente nei secoli inesistente. Una serie di valutazioni finalmente non conformiste? Sì; però sommando le une alle altre, alla fine i conti semplicemente non tornano. Come può questa miseria economica e sociale aver generato una città indubbiamente bella? Una città che, al centro dell’Europa ai tempi del Concilio, riuscì a soddisfare principi, re e cardinali che per vent’anni vi soggiornarono compiaciuti? E ancora, come ha fatto questa civitas inconsistente, saltato il tappo dell’ormai esausto principato vescovile (e questo lo diciamo noi) a trasformare in un secolo e mezzo il piccolo buco tra le montagne in una delle città più apprezzate e anzi invidiate d’Italia; come ha fatto, senza una classe dirigente adeguata, a giocarsi al meglio le carte che la storia le ha dato (la città piazza d’armi sul pericoloso confine meridionale dell’impero asburgico; il mito battistiano con Mussolini; l’aggancio alla questione sudtirolese nell’ultimo dopoguerra)?
È uno scarto clamoroso tra i giudizi del libro e la realtà fattuale che fatalmente svaluta l’insieme del lavoro.
Ed è, ripetiamo, un peccato. Perché (tranne per la sezione contemporanea, che ci sembra buttata lì in qualche maniera) il lavoro, minuzioso di ricerca sui dati e sulle fonti c’è, e lodevole. Purtroppo non è accompagnato da una adeguata capacità di interpretazione.