L’avaro
Eccessi narcisistici
Come si fa a non dir bene dell’applaudito spettacolo («L’avaro» di Molière) di un acclamato e pluripremiato regista, Marco Martinelli? C’è da sentirsi cretini, a uscirne irritati, in mezzo a un pubblico plaudente e divertito...
Ad esempio, la scelta annunciata di dare la parte di Arpagone a una donna: originale, no? Come a dire: perché un avaro deve per forza essere un uomo? Non lo può essere anche una donna? No. Per tutto lo spettacolo Arpagone-donna resta “uomo”, viene chiamato “padre” dai figli, anche se non occulta le fattezze femminili.
Ermanna Montanari, pluripremiata moglie del regista, è bravissima: nel 2006 ha ricevuto il “Premio Lo Straniero” dedicato alla memoria di Carmelo Bene con la motivazione: “Grande interprete di ‘L’isola di Alcina’ e ‘La mano’, sperimentatrice delle possibilità e del potere della voce umana, è a suo modo la migliore continuatrice di una ricerca di cui Carmelo è stato iniziatore e maestro”. In questa versione dell’”Avaro” la sua voce rauca e gracchiante caratterizza il personaggio nerovestito da lei interpretato, come la maga Alcina (sua specialità) o la strega Grimilde di disneyana memoria: divertente, ma che c’entra?
Evidentemente la contraffazione grottesca della voce è una stimabile specialità dell’Attrice: era necessario appiccicarla anche ad Arpagone? Ovvio, la performance di per sé è godibile; ma a uno spettatore su cinquecento - risibile opinione, dunque - può sembrare artificioso.
Il programma di sala spiega che “ritmi ossessivi e ripetitivi trasformano i personaggi in fantocci disarticolati, vittime della stessa loro ipocrisia e vanità”: si tratta di gag, alquanto esagitate, che mettono alla prova la recitazione di ottimi attori e attrici, impegnati a rendere al tempo stesso intelligibile il coerente testo molieriano. Di fatto, gli intermezzi semi-muti, certamente fanno scena, ma non appaiono immediatamente decifrabili nella continuità drammaturgica. Bisognerà leggere un commento autoriale, qualche nota a piè di pagina, per capire di più e pervenire a farsi piacere complessivamente uno spettacolo, che si apprezza - a parere dello 0,2% del pubblico - più nei dettagli che nel loro assemblaggio.
Anche la metafora del microfono come strumento del potere lascia il tempo che trova: sostenere che (attualmente) esso non è fondato sul denaro, ma sulla proprietà dei mezzi di comunicazione, è una buona quanto ovvia tesi, che tuttavia va ben al di là del testo di Molière, al quale un regista, se vuole, può far dire qualunque cosa, con perizia, originalità e profusione di trovatine.
Inoltre, l’idea di cominciare lo spettacolo con dei tecnici-attori, fornendogli una cornice meta-teatrale (il regista mette in scena se stesso, che una sera dopo l’altra mette in scena l’”Avaro” di Molière), avrebbe forse avuto maggior e più originale compimento se non si fosse chiuso con gli applausi e gli inchini, bensì con lo smontaggio delle scenografie. A ben pensarci, sembra quasi che si finisca col rappresentare piuttosto la bravura del regista e dell’attrice, che l’opera di Molière: è troppo ovvio parlare, dunque, di eccesso di narcisismo?
L’importante, alla fine, è che gli artisti, il regista e quasi tutti gli spettatori si siano divertiti. Al diavolo la critica.