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QT n. 11, novembre 2011 L’intervista

Antisemitismo, l’eredità di Gheddafi

Il dottor David Gerbi, ebreo libico già esiliato dal Rais e già membro del CNT, ora è stato cacciato anche dai ribelli vittoriosi.

David Gerbi a Tripoli prima della partenza per l’Italia. Sullo sfondo la ex Piazza Verde.

Se c’è un test che i commentatori internazionali hanno utilizzato per non fare eccessive aperture di credito alla primavera araba, considerando la Libia un paese avviato verso un improbabile processo democratico, è stato ciò che è accaduto a David Gerbi. Della sua vicenda e dell’epilogo che ha sfiorato la tragedia personale e l’incrinarsi degli equilibri mondiali, ha riferito tutta la stampa internazionale. In Italia di David Gerbi, ebreo libico, cacciato da Tripoli dal CNT (Comitato Nazionale di Transizione) l’11 ottobre scorso perché voleva riaprire la sinagoga dopo 44 anni di oblio, ha parlato soprattutto il Corriere della Sera e un flash dell’ANSA lo stesso giorno del suo rientro forzato in Italia. Il racconto dettagliato di quegli accadimenti, Questotrentino ha potuto raccoglierlo dalla viva voce dello stesso protagonista; l’uomo che i ribelli chiamavano “Udai ugrauli”, l’ebreo rivoluzionario, era infatti in visita a Trento nei giorni scorsi.

Il dottor David Gerbi, ebreo libico cacciato dal suo paese dal regime di Gheddafi con la famiglia nel 1967, durante la Guerra dei sei giorni, è uno psicoterapeuta junghiano. Cresciuto in Italia da quando aveva 12 anni, appartiene alla consistente comunità degli ebrei libici di Roma. Giornalista, attore, scrittore, cooperatore ed instancabile promotore del dialogo arabo-israeliano in Libia, dal 2001 tenta invano di ridare dignità alla memoria di una comunità, quella ebraica, che in Libia contava prima del 1967 circa 38.000 persone, alle quali il regime del Rais, dopo averle espulse dal paese minacciandole di morte, ha confiscato tutti i beni. Degli ebrei libici, sparsi per il mondo, ne sono rimasti circa 5.000, ma nessuno di loro ha potuto più fare ritorno alla terra natale. E Gerbi, pur essendo un combattente impegnato per il dialogo interreligioso in tutto il mondo, ha sempre rivendicato un forte senso di appartenenza al suo paese, considerandolo un punto di partenza della sua missione.

Il voltafaccia e le rappresaglie del colonnello

Gerbi davanti alla sinagoga di Sla Dar Bishi a Tripoli.

Ingaggiato e poi tradito dal Colonnello, che nel 2007 che cercava di accreditarsi presso l’Occidente come un capo di stato democratico e pluralista, David sfugge alla morte una prima volta proprio in quell’anno. Invitato in Libia da Gheddafi ed accolto con tutti gli onori, viene incaricato di missioni a favore della minoranza ebraica libica, prima negli Stati Uniti e poi in Sudafrica. Ma una mattina, all’improvviso, mentre lavora all’ospedale di Bengasi, viene prelevato a forza dai miliziani del Rais e condotto a Tripoli, senza nemmeno poter prendere le proprie cose. All’aeroporto trenta soldati del regime armati fino ai denti lo interrogano e strattonandolo lo imbarcano su un aereo diretto a Malta. Tutti i suoi contatti lo abbandonano: l’ambasciatore italiano e la segretaria del ministro degli esteri libico si rendono irreperibili. Era una prassi normale per il Rais: “Ti usava, e quando diventavi ingombrante - riferisce David - ti abbandonava al tuo destino, o ti faceva uccidere”. Senza un soldo e sorvegliato a vista dai servizi segreti, riesce miracolosamente a scappare e a tornare a Roma, ma nei suoi occhi rimangono visioni incancellabili.

“In quei 22 giorni di novembre del 2007 ho battuto la Libia palmo a palmo, in lungo e in largo, ho visitato tutti i cimiteri ebraici, a Tripoli, Bengasi, Homs, Zeiten, Shgrama, Gherian, Jeffren... ho toccato con mano la devastazione, il vilipendio e l’oblio perpetrato nei confronti del mio popolo. La sinagoga di Sla Dar Bish era ridotta una discarica. Ho lavorato nell’ospedale psichiatrico di Bengasi e pregando ogni giorno capivo che non c’era modo di svincolarmi dal mio destino. Sarei tornato, non sapevo quando né come, ma qualcosa di imperscrutabile mi aveva galvanizzato, legandomi indissolubilmente a quella memoria collettiva ferita, umiliata e orribilmente dimenticata. È stato come fare un viaggio in un passato dal quale era impossibile tornare”.

Lo ascolto con attenzione e penso che quelle ferite millenarie, quel dolore senza odio, non guarirà. Tenteremo all’infinito di tenere aperto il dialogo, sviscerando le ragioni dell’una e dell’altra parte, ma la memoria di una “patria rubata” resterà al centro del discorso, beffarde e irridenti, a polverizzare tutti i nostri goffi tentativi, i buoni motivi, la ragion di Stato.

La rivolta in Libia e la speranza

A marzo di quest’anno la primavera araba accende le rivolte in quasi tutti i paesi del nord Africa, contro tiranni e plenipotenziari familisti e corrotti, che hanno affamato il popolo e accumulato ricchezze leggendarie. In Libia la rivolta è guerra, il capo supremo del governo, il colonnello Muammar Gheddafi, ordina di sparare sul suo popolo. È il momento che David Gerbi aspettava per attuare il suo progetto, dentro il sogno di uno stato libero, democratico e rispettoso dei diritti di tutti, anche degli ebrei di Libia. Dopo una serie di contatti con il CNT, nell’agosto scorso decide di partire per raggiungere i ribelli; le frontiere sono chiuse, ma riesce a entrare via Tunisia:

“Mi accolgono con entusiasmo, e ben presto Udai ugrauli diventa il medico a supporto dei feriti, delle loro psicosi guerriere, dei loro bambini soldato. In Libia convivono libici arabi (la maggioranza), libici hamazigh (berberi) e libici neri; fino al 1967 anche libici ebraici, ma i giovani sono stati educati dal regime ad odiare gli ebrei, perché il Rais ha inculcato nelle loro menti che sono la causa di tutto.

Nonostante questo, il ministro ad interim della Giustizia Mohammed Al-Alagi decide insieme al direttivo di nominarmi membro effettivo del CNT. Percepisco da subito qualcosa di strano: i capi non vogliono farsi fotografare al mio fianco. Nei giorni del Kippur vado alla Sinagoga, mi vesto con i paramenti sacri e inizio a demolire a picconate l’ingresso murato. Assumo un paio di giovani che mi aiutano a ripulire il sito pieno di animali morti, immondizia e suppellettili. Molta gente passa, si ferma e fotografa. Una donna mi dice: ‘Aspetta e vedrai, il mondo parlerà di te’. Una premonizione: a breve arrivano le tv, i giornalisti e fotografi di tutto il mondo.

La mattina seguente davanti all’ingresso trovo una persona che mi intima di chiudere tutto: presto sarebbero arrivati i ribelli e mi avrebbero ucciso. Rispondo piccato che non sono disposto a fare nulla di tutto ciò. Il tipo mi strattona fino all’uscita sul retro. Capii che ero in pericolo, ma dentro di me saliva prepotente la volontà di non cedere. Non mi sarei fatto cacciare un’altra volta. Tornai all’ingresso principale e mi feci intervistare. Arrivarono in 40, forse 50 ribelli, intimandoci di tornare in albergo e di non mettere il naso fuori. Il giorno dopo insieme all’uscita dei giornali, in tutta la Libia iniziarono manifestazioni antisemite, a Tripoli e a Bengasi i cartelli dicevano ‘David, go home’. Il primo ottobre i ribelli armati tentano di entrare in albergo, ma il ministro Al-Alagi intima loro di fermarsi, perché il mondo avrebbe condannato atti violenti nei miei confronti, perché io ero andato in pace. Urlano, strepitano, ma Al-Alagi non si fa intimidire. Ogni giorno mi minacciavano di morte, urlando sotto le finestre dell’albergo, ma per me era inaccettabile fuggire di nuovo. Sarei rimasto, ma Al -Alagi mi implorava: ‘Dai tempo al tempo, David, questo paese ne ha molto bisogno, ti prometto che tornerai. Ma in questo momento non possiamo creare altra tensione. Se vuoi bene al tuo paese, lascia che questo popolo riprenda in mano la propria storia”.

Non si può certo dire che le ragioni del ministro fossero prive di ogni fondamento e Gerbi, da pacifista convinto, accetta di lasciare la Libia. Parte per Roma su un aereo militare con 15 feriti libici, di cui tenta di occuparsi, ma gli viene impedito anche questo: l’ambasciatore libico in Italia Gaddur ordina ai suoi funzionari di allontanare David dal Roma American Hospital.

Pochi giorni dopo Gheddafi viene barbaramente ucciso, ma il cammino verso la democrazia non sappiamo se sia davvero iniziato nel Maghreb. A giudicare dall’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo, fino alle proteste contro la proiezione di film non graditi agli islamici in Tunisia, per ora possiamo soltanto affermare che la questione mediorientale potrebbe in qualche modo renderne arduo il cammino, soprattutto se i nuovi governi non avranno la forza di tenere fuori dalla porta le recrudescenze integraliste, insieme ai giganteschi interessi internazionali che gravitano attorno al conflitto tra Israele e Palestina.

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