Il teorema che non funziona più
Dalla globalizzazione alla crisi dell’Occidente: si può ancora tornare indietro?
Ogni studente di una laurea economica impara sin dal primo anno il teorema classico del commercio internazionale esemplificato nei manuali dal caso, semplificato al massimo, in cui s’immagina che il mondo sia fatto di due paesi soltanto, Inghilterra e Portogallo, e che questi, sempre per semplificare, producano entrambi due soli prodotti: vino e panno. Ebbene il teorema dimostra che se ciascuno dei due paesi nominati, invece di produrre sia vino che panno si specializzasse, ossia nella fattispecie se il Portogallo producesse solo vino e l’Inghilterra solo panno, si avrebbe alla fine una quantità maggiore prodotta sia dell’una che dell’altra merce e a prezzi più convenienti per i consumatori di entrambi i paesi. A ciascun paese conviene insomma specializzarsi là dove ha un vantaggio comparato (per ragioni climatiche, sociali, storiche o altro) ed esportare poi l’eccedenza prodotta per ottenere ciò che gli manca, invece di produrre tutto da sé.
Questa dottrina economica è alla base di tutta la storia degli accordi economici internazionali degli ultimi 50 anni; dagli accordi del GATT per l’abbattimento progressivo dei dazi e delle barriere doganali a livello mondiale, agli accordi regionali, del tipo di quelli che nella UE aprivano le frontiere ai paesi africani ex-colonie inglesi o francesi. Ma accordi analoghi oggi sono vigenti in Nordamerica (il cosiddetto NAFTA), in America Latina (MERCOSUR), nell’Africa meridionale (SADC) e occidentale (CEDEAO), in Asia sud-orientale (ASEAN), ecc. Lo stesso COMECON, il mercato comune dei paesi dell’ex-blocco sovietico, era una applicazione un po’ sui generis ma molto coerente di questo teorema. Il commercio internazionale, basandosi sul presupposto della specializzazione di ciascun paese in uno o comunque in pochi prodotti - ancora semplificando: prodotti ad alta tecnologia per USA, UE, Russia e Giappone, prodotti a medio-bassa tecnologia per paesi in via d’industrializzazione, prodotti poveri o artigianali per il terzo mondo e così via - prometteva il miracolo della crescita economica per tutti, dell’aumento esponenziale della produzione dei beni e a prezzi sempre più convenienti. Quanto a dire - sostenevano i grandi economisti del XIX secolo - che con il libero commercio internazionale, la specializzazione e la derivante “armonica” divisione internazionale del lavoro, tutto il mondo s’arricchirà e il sottosviluppo sarà gradualmente vinto. Il libero commercio internazionale avrebbe attuato alla lunga una proficua redistribuzione delle ricchezze e dei redditi in senso perequativo tra le varie nazioni e parti del pianeta.
Si può dire che questo modello ha mantenuto le promesse, insomma che ha funzionato fin quasi alla fine del secolo XX. Lo abbiamo poi chiamato “globalizzazione” (fenomeno certo non solo economico), e in virtù del suo buon funzionamento una grossa parte di quel Terzo Mondo che faceva la fame fino a 30 o 40 anni fa oggi gode di un benessere nient’affatto disprezzabile. Frigorifero e cellulare sono entrati nella casa di quasi ogni cinese o indiano, egiziano o messicano. Il problema sta nel fatto che un teorema descrive una situazione teorica, non certo (e non sempre e comunque) una situazione concreta (storica).
A parte l’ovvia considerazione che il mondo non è quello semplificato del modello a due paesi che producono solo due merci, s’è visto come nessun paese si rassegni all’idea di produrre solo poche merci di una determinata tipologia e/o livello tecnologico: l’India e la Cina hanno cominciato, è vero, con l’invaderci di panni e spezie a buon mercato (fin qui il modello teorico funzionava egregiamente), ma il guaio è che ormai ci invadono di computer, auto, servizi informatici sofisticati... Insomma il teorema del commercio internazionale non aveva previsto che ogni paese, sviluppandosi, avrebbe preteso di fabbricare tutta la scala dei prodotti, da quelli a bassa a quelli ad alta tecnologia, magari con la complicità interessata delle multinazionali affamate di lavoro a bassi salari; non aveva previsto una situazione in cui le auto americane o europee dovevano subire la concorrenza di quelle coreane, e oggi di quelle indiane, e domani delle cinesi. Per esemplificare: stando al modello di sviluppo implicito nel teorema, un’Italia che produce macchinario industriale di prim’ordine, non dovrebbe anche continuare a produrre mobili e scarpe... Una Cina che ci invade di prodotti tessili, avrebbe dovuto continuare a specializzarsi in quelli e basta, e non costruire anche computer auto e macchinario d’ogni tipo...
Insomma il modello previsto dal teorema del commercio internazionale, funziona a meraviglia, ma solo se non tiene conto - a parte le semplificazioni di cui s’è detto - della realtà, della storia, della politica, in una parola degli sviluppi della società umana, della sua imprevedibile complessità.
Ci si chiede oggi: ma questa globalizzazione, se doveva portarci crisi, stagnazione e miseria crescente, perché l’abbiamo voluta? Non si stava meglio con i mercati protetti da dazi e dogane? Questo genere di domanda riflette lo sgomento e la paura di una parte del pianeta, quella che finora ha dominato a partire dall’era del colonialismo, e che vede i propri livelli di vita calare inesorabilmente insieme ai livelli degli stipendi. Se ci mettiamo dal punto di vista dell’altra parte, quella dell’ex-Terzo Mondo, capiamo che la globalizzazione può essere non solo accettata, ma persino benedetta e promossa, anzi da quelle parti se ne auspica l’ulteriore sviluppo, sino - tendenzialmente - alla caduta definitiva di ogni barriera doganale e alla realizzazione di un ideale Mercato Mondiale Unificato.
Reintrodurre le barriere doganali?
È una questione di punti di vista. In realtà la globalizzazione ha reso oggettivamente il mondo meno sperequato, in pochi decenni ha spostato quote crescenti di ricchezza dal Nord al Sud del pianeta; ma, certo, non si può chiedere a chi aveva di più e vede il proprio tenore di vita decrescere inesorabilmente di consolarsi pensando che il mondo oggi è meno diseguale. La filantropia non è una virtù popolare. Né filantropi sono stati i veri protagonisti della globalizzazione: il capitale finanziario, le multinazionali, le grandi imprese di import-export. Semplicemente il capitale dell’Occidente euro-americano è andato a produrre ovunque potesse massimizzare i profitti, delocalizzando gli impianti nel terzo e nel quarto mondo, infischiandosene della desertificazione industriale di intere regioni: si pensi al caso paradigmatico dell’Inghilterra di oggi. L’Economia (i “comitati d’affari”) ha annichilito la Politica a livello locale e globale, l’ha annessa e funzionalizzata ai propri scopi; qualcuno ha opportunamente parlato di “esilio della politica” (Guido Carandini in “La Repubblica” del 26 agosto).
La domanda che non si osa fare apertamente in Europa o America è: ma non si potrebbe tornare indietro? A parte l’ovvia considerazione che non si possono riportare indietro le lancette dell’orologio della storia; a parte il cinismo implicito nella domanda, giacché evidentemente chi auspica questa sorta di retromarcia accetterebbe probabilmente senza battere ciglio che mezzo mondo torni ai livelli di fame di trent’anni fa; a parte le considerazioni di carattere sistemico: una retromarcia in senso protezionistico potrebbe iniziare solo con una massiccia reintroduzione di dazi e barriere doganali, qualcosa che destabilizzerebbe i mercati, getterebbe l’economia mondiale “aperta” di oggi nel caos e in una depressione ancor più generalizzata; a parte tutto questo, c’è la semplice constatazione che politicamente non si può.
Nel mondo non comandano più solo le banche americane ed europee, ci sono anche quelle cinesi, indiane, arabe. Il debito pubblico americano è per una buona metà in mano a banche e istituzioni asiatiche; e la crisi dell’euro e del debito (greco, portoghese, irlandese, spagnolo, italiano...) accentuerà la tendenza al predominio finanziario dell’Asia. Ancora agli inizi degli anni ‘70, quasi l’ 80% del commercio mondiale era controllato da USA Europa e Giappone, il Nord del pianeta; oggi questa percentuale è scesa della metà.
Allora le multinazionali americane e un manipolo di multinazionali europee la facevano da padrone in ogni angolo del mondo; oggi, per fare un esempio attualissimo, in Libia la ricostruzione post-Gheddafi è stata già prenotata, fra le altre, da agguerrite aziende turche e... thailandesi!
In breve: la globalizzazione è stata teorizzata, iniziata e promossa dall’Occidente, che ci ha sguazzato e prosperato alla grande... ma oggi nella cabina di comando dell’economia mondiale non si parla più solo inglese. Davvero la storia si è rivelata più complicata e imprevedibile dei teoremi.