E se in fondo alla crisi ci fosse la guerra?
La bufera prima o poi si placherà, resta da vedere a quale prezzo
In questo fine 2011 sembra di vivere in un periodo di bonaccia: apparentemente sono alle spalle gli acuti stress borsistici di questi ultimi mesi, le economie europee convivono ormai rassegnate con tassi di sviluppo bassi e spread elevati, qualcuno azzarda persino l’ipotesi che il peggio sia passato. Non occorre essere profeti per capire che le cose non stanno proprio così. Tradizionalmente a fine anno le borse si riprendono: in realtà a tutti i gestori di fondi e di azioni conviene terminare l’anno con qualche rialzo per aggiustare i bilanci e l’immagine aziendale. Entra poi in gioco, come in ogni periodo di crisi prolungata, quella fondamentale risorsa umana che è lo spirito di adattamento (o l’abitudine al peggio), sicché quello che fino a poco prima era sembrato insopportabile rientra un po’ alla volta nella normalità. Un esempio: fino a tre mesi fa uno spread sopra i 300 punti sembrava uno scenario da incubo; ora la soglia d’allarme si è elevata di parecchio, e restare sotto i 500 già sembra una situazione quasi accettabile.
In effetti, tutte le ragioni di fondo della crisi dell’Occidente sono ancora lì. A un primo livello, quello più strutturale, l’analisi si potrebbe così riassumere: i paesi (ex) ricchi, che ancora hanno sul groppone uno stato sociale costoso e sofisticato, con spese elevate per pensioni salute e assistenza, sono stati messi alle corde da alcuni (ex poveri) paesi rampanti che hanno un’economia con il vento in poppa, anche perché non gravata da quel welfare che costituiva l’orgoglio del sistema europeo del ‘900.
Su questa situazione di fondo, strutturale, che ci richiede (impone) drastici ridimensionamenti nel tenore di vita per restare competitivi, si innesta - ed ecco un secondo livello - il cancro della speculazione di banchieri e finanzieri senza scrupoli che operano su scala mondiale. Insomma la speculazione di quell’1% di pescecani della finanza, per i quali uno spread oltre 400 o 500 significa poter guadagnare a palate sulle disgrazie di intere nazioni, a danno di quel 99% che arranca. E che si chiede sempre più sbigottito perché mai le tradizionali buone virtù del lavoratore-risparmiatore, o del piccolo imprenditore stakanovista che s’è fatto con le sue mani, non bastino più a garantire il benessere dei figli.
A questi due livelli - quello sistemico della crisi (epocale) da transizione e quello della crisi (ricorrente) da sciacallaggio finanziario - i paesi come il nostro ne devono aggiungere un terzo: quello legato ai ritardi del sistema. Per esempio nella modernizzazione delle infrastrutture (banda larga, trasporti) e delle strutture giuridiche (giustizia civile, liberalizzazioni), nella riforma di una burocrazia elefantiaca, nella lotta alla corruzione para-mafiosa, imperante a ogni livello nelle caste politico-partitiche e nelle corporazioni professionali. Risolvere questi problemi non ci porterebbe fuori dalla crisi, ma almeno ci metterebbe alla pari con gli altri big europei che devono vedersela “solo” con i problemi dei due primi livelli, già di per sé una sfida formidabile. È importante infatti capire che la nostra crisi non dipende dal malfunzionamento dello stato, dall’evasione fiscale o dalla corruzione generalizzata (ci conviviamo da sempre...), ma che questi fattori nel nostro contesto la complicano e accentuano a dismisura: in altre parole il non avere mai seriamente aggredito questo terzo livello del problema, il ritardo del sistema-paese, penalizza l’azione di qualsiasi governo, anche il più serio e meglio intenzionato.
La mannaia del rating
Tornando al contesto più generale, la crisi dell’Occidente europeo e nordamericano oggi è sì economica, ma come tutte le crisi richiederà soluzioni politiche. Il problema però sta proprio qui: la politica è debole, quasi latitante e l’economia ha preso il sopravvento negli ultimi decenni a cavallo tra XX e XXI sec. E la sfida, ben intuita dal movimento degli indignados, sta tutta qui: riuscirà la politica a riappropriarsi degli spazi usurpati dall’economia, ovvero dalle grandi multinazionali, banche e assicurazioni, dalle varie Lehman Brothers e Goldman Sachs che infestano il pianeta?
Oggi la politica sembra succube degli istituti di rating, dei vari Standard and Poors, Fitch e simili che, con le loro sentenze espresse in sole tre lettere, sono divenuti gli incubi dei governi. Strano paradosso: di fronte alle loquaci proteste delle masse, ai discorsi appassionati sui diritti violati di intere popolazioni, alle perorazioni dei nuovi”tribuni della plebe, sta un Potere afono, che si esprime con tre sole lettere: A, B, C e le loro combinazioni. Tu vali due A, tu AAB e tu invece tre B. Punto. Giustamente i commentatori, conservatori o progressisti, hanno messo in risalto l’anomalia di questa situazione, il pericolo incombente sul sistema democratico dell’Occidente: pochi tecnici anonimi, i cui rapporti con l’alta finanza internazionale non sono un mistero per nessuno, possono decidere con un breve comunicato le sorti di interi stati, di intere popolazioni.
La globalizzazione, un indubbio elemento di “democratizzazione economica” e di perequazione dei redditi (v. il nostro articolo su QT n. 9, 2011) fra le varie parti del pianeta, sembra qui mostrare il suo lato più oscuro e minaccioso. Negli anni Novanta la gogna dei rating negativo era toccata ai paesi del Sud-Est asiatico e all’Argentina, poi anche alla Russia, e tutti allora sentenziavamo che quei paesi se l’erano meritata; ma ora che la mannaia del rating tocca a noi, evidentemente il corso delle cose non ci sembra più tanto tollerabile...
Questa crisi, globale e di sistema, avrà per sbocco naturale un nuovo assestamento delle gerarchie mondiali, che vedrà inevitabilmente Europa e Nordamerica perdere posizioni a favore dei paesi emergenti. Ma esiste un altro scenario, che la Storia ci ha insegnato sempre possibile: la guerra. Di recente si sono avute negli USA imponenti manifestazioni politico-sindacali nei porti dislocati sulla costa del Pacifico per bloccare lo sbarco dei container cinesi; in Europa monta il risentimento per i grandi centri all’ingrosso di merci cinesi, spuntati come funghi.
È solo un inizio? Un aggravarsi della crisi e un aumento improvviso della disoccupazione ai livelli degli anni ‘30 - con cui non a caso si propongono ormai paragoni frequenti - avrebbe quasi sicuramente l’effetto di bloccare la globalizzazione, con la reintroduzione di dazi e/o ostacoli crescenti al commercio.
Detta così, sembra niente, ma un trend del genere significherebbe buttare a mare il modello di economia mondiale degli ultimi 60 anni, che si è retto sulla crescente apertura dei mercati al commercio internazionale. Vale la pena ricordare che lo sbocco della crisi finanziaria del ‘29 fu una sequenza micidiale: disoccupazione di massa, accentuazione del protezionismo (si ricordi l’Italia dell’autarchia) e quindi, alla fine degli anni ‘30, la guerra mondiale. Oggi, a ben vedere, una scelta protezionistica può nuovamente costituire una forte tentazione perché: 1) potrebbe contenere la disoccupazione crescente in Europa e America del Nord, con tutti i pericoli che essa si porta dietro; 2) potrebbe bloccare lo sviluppo a due cifre delle economie emergenti, stoppando l’export di Cina, India, Russia e Brasile, ormai lanciatissimi verso la leadership mondiale.
Certamente una scelta di questo genere sarebbe eminentemente politica, segnerebbe anzi un ritorno alla grande della supremazia della politica sull’economia. Ma sarebbe auspicabile questo ritorno, e in questi termini? D’altra parte, c’è forse in campo una proposta diversa? Gli “indignados” hanno appunto finora espresso indignazione, non una proposta all’altezza dei problemi; a meno di non credere ingenuamente che “dire no” sia già una politica. Non si vede ancora il soggetto in grado di farsi carico di una proposta politica forte per uscire dalla crisi, che sia alternativa allo spettro del protezionismo. L’area liberal è ambiguamente contigua al sistema di potere finanziario mondiale, la sinistra è ancora alla ricerca di chi sostituisca i Marx e i Lenin, In queste condizioni, non meraviglierebbe se prima o poi saltasse fuori di nuovo qualcuno ad arringare le masse impaurite contro il pericolo di un complotto mondiale, ieri comunista-giudeo-plutocratico e oggi magari aggiornato come complotto cino-islamico che avrebbe già le sue sinistre avanguardie tra gli immigrati.