Una nuova legge elettorale, finalmente
La modifica allo Statuto appena approvata può essere una svolta per la politica trentina.
Dunque, la Camera dei Deputati ha approvato, in via definitiva, la modifica allo Statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige, aprendo le porte all’elezione diretta del Presidente della Provincia di Trento.
Certo, la politica è fatta di persone, non solo di regole. E quindi non è detto che regole nuove producano necessariamente migliore politica. Di sicuro, però, era difficilissimo, se non impossibile, produrre buona politica con regole inceppate.
Per usare l’efficace metafora di Giorgio Tonini, la politica trentina degli ultimi dieci anni è stata come una partita di calcio giocata in un campo invaso dal fango. Vedere del buon gioco era improbabile, vedere un gol quasi impossibile. Ed i veri eroi, in questi dieci anni, non sono stati quelli che hanno cercato di tirare in porta, bensì quelli impegnati a spalare il fango. Ora, ripulito il campo di gioco, se i giocatori sono brocchi la partita potrebbe fare ancora schifo, ma almeno il pubblico sugli spalti potrà giudicare a ragion veduta (e scegliere, se necessario, giocatori migliori).
Cosa è stata la politica trentina degli ultimi dieci anni? Un vero disastro, per una Provincia che ha quasi le stesse competenze che avrebbe uno Stato in una Repubblica federale.
Crisi della Giunta Malossini e nascita della Giunta Bazzanella, sostenuta da una maggioranza formata da partiti arrivati, qui come a Roma, al capolinea: quella Giunta si rivela così improduttiva che al suo Presidente è affibbiato il nomignolo di "Bazzanulla". Poi, elezioni regionali del 1993: sei mesi di fumose e laceranti trattative tra le segreterie dei vari partiti e, solo dopo le politiche del ’94, nascita della prima Giunta Andreotti. Dopo un anno di governo inconcludente, paralizzato dalle tensioni interne tra gli ex-diccì, si entra nuovamente in crisi. Lo stallo dura otto mesi, nel frattempo nasce l’Ulivo che vince le elezioni politiche del ’96, solo dopo le quali nasce la seconda Giunta Andreotti, con maggioranza opposta alla precedente e frutto di una trattativa interminabile: si mettono in campo una serie di buone riforme, nessuna delle quali (o quasi) arriva però all’approvazione.
Dopo meno di un anno è ancora crisi, che si chiude, sei mesi dopo, con la nascita della terza Giunta Andreotti, di segno ancora una volta opposto rispetto alla precedente. Il governo provinciale tira a campare fino alle elezioni regionali del ’98, non approvando praticamente un bel niente.
Alle elezioni l’Ulivo si presenta con un programma unitario e con un candidato alla Presidenza della Provincia, Lorenzo Dellai, promettendo di voltare pagina. Raccoglie ben 16 seggi su 35, ai quali presto si aggiungono i tre della Genziana. Tutto questo non basta: passano sei mesi senza riuscire ad eleggere nemmeno il Presidente del Consiglio provinciale ed alla fine la Giunta nasce tra le polemiche, lasciando le commissioni in mano alle minoranze. Il risultato, ancora una volta, è la paralisi decisionale, che finisce per scatenare spinte centrifughe in seno alla maggioranza: non riuscendo a produrre nulla di buono col governo, ogni partito va alla ricerca del consenso per se stesso, secondo una logica clientelare e corporativa. Le riforme finiscono nel cassetto e si scatena un’inconcludente bagarre attorno a vecchissimi progetti di infrastrutture, bocciati sin dalla Giunta Malossini. La pagina è stata voltata, ma all’indietro.
Comunque la si pensi sui vari argomenti, ciò che conta è che in questi dieci anni le maggioranze di governo si sono formate a prescindere dalla volontà degli elettori, quando non addirittura in contrasto con essa. E, di conseguenza, anche le decisioni assunte poco o nulla hanno avuto a che fare con le promesse elettorali. V’è insomma stato, e v’è ancora, un grave deficit di democrazia, che poi altro non è che la conseguenza inevitabile di una politica paralizzata, impossibilitata a produrre scelte nell’interesse di tutti perché ostacolata dai veti di chi rappresenta gruppi d’interesse. L’unica politica possibile, in questa situazione, è stata quella di non decidere su nulla oppure, peggio ancora, quella di accontentare tutte le varie richieste corporative.
Cosicché, il Trentino ha accumulato dieci anni di ritardo rispetto al resto d’Italia: là si fanno le privatizzazioni, qui si fanno le provincializzazioni; là si introduce concorrenza, qui si tutelano le posizioni acquisite; là si fanno le riforme della pubblica amministrazione, qui si conservano i Comprensori; là si istituiscono nuovi parchi nazionali, qui si distrugge la Val Jumela; là si entra in Europa, qui ci si oppone all’Europa per poter continuare col clientelismo dei contributi a pioggia. Per farla breve, il Trentino si trova oggi più o meno nelle condizioni nelle quali si trovava l’Italia sul finire degli anni ’80.
La riforma dello Statuto ora approvata dal Parlamento può, da questo punto di vista, scatenare una vera e propria rivoluzione. Sono quattro le principali novità, tutte però riconducibili ad un unico obiettivo, quello (ci si permetta l’enfasi) di riconsegnare lo scettro del potere nelle mani degli elettori.
Primo: elezione diretta del Presidente della Provincia. E’ la parola fine ai politici per tutte le stagioni, ai partiti e partitini che stanno sempre al governo qualunque sia il risultato elettorale. Il Presidente della Provincia governa male? Non rispetta le promesse fatte agli elettori? Finalmente potremo mandarlo all’opposizione, a condizione però che anche noi impariamo ad essere elettori moderni. In una democrazia dell’alternanza, chi vota sempre lo stesso schieramento a prescindere da come governa non è un buon elettore. Se uno governa male è meglio (anche per il suo bene) provare l’alternativa, che poi giudicheremo a sua volta. Scommettiamo che, se gli facciamo capire che siamo pronti ad abbandonarlo, chi è al governo s’impegnerà in tutti i modi per governare il meglio possibile?
Secondo: maggioranza consiliare garantita allo schieramento del Presidente eletto. A differenza di quanto avviene nei comuni, non si dovranno subire ricattucci o spartire le seggiole per assicurarsi la possibilità di governare. Saranno gli elettori a scegliere, in maniera semplice e chiara, se farsi governare dal centrosinistra o dal centrodestra. Chi vince si prende Presidente e maggioranza dei seggi in Consiglio, ossia la possibilità di rispettare quanto promesso, senza più poter accampare l’alibi di essere stati costretti a stringere alleanze dopo le elezioni. Chi non si schiera è fregato in partenza: la politica dei due forni, dell’ago della bilancia, diventa impraticabile.
Terzo: la mozione di sfiducia o le dimissioni del Presidente provocano nuove elezioni. Questo significa che se nasce un contrasto tra il Presidente ed una parte della sua maggioranza, saranno solo gli elettori a decidere chi ha ragione e chi ha torto. I partiti non potranno insomma più tradire, coi ribaltoni, quanto sancito dalle elezioni. Tutto questo spingerà i vari partiti della coalizione al governo ad essere fedeli al Presidente, ma anche il Presidente a rispettare in maniera precisa il programma. Chi sgarra da questa logica rischia grosso.
Quarto: il Presidente si sceglie gli assessori che vuole, anche tra non consiglieri. Cosicché il Presidente potrà decidere se continuare con la logica del bilancino nella spartizione delle cariche, oppure se scommettere sulla qualità e sulla competenza degli assessori. Nell’uno o nell’altro caso, alla fine della legislatura ne risponderà personalmente davanti agli elettori. Nei comuni i sindaci possono scegliersi solo una parte di assessori "tecnici", mentre per il resto sono costretti ad andare avanti con la logica di non scontentare i partiti della loro coalizione: se un assessore è incapace, il sindaco non può che allargare le braccia e dire che glielo hanno imposto. Qui, invece, il presidente della Provincia avrà la piena responsabilità nella scelta della Giunta: se fa troppo il furbo finisce di fare il presidente prima ancora di iniziare, poiché gli crollerà la maggioranza, ma se per accontentare la maggioranza costruisce una Giunta di cattiva qualità rischierà, assieme alla sua coalizione, di essere mandato a casa alle successive elezioni.
Un bel cambiamento, non c’è che dire.
Certo, non è il sistema migliore possibile: avremo coalizioni formate da tanti partiti, per i quali si voterà ancora con la logica dell’appartenenza anziché con quella programmatica, ed i consiglieri saranno ancora eletti con le preferenze, che sono la causa prima dei comportamenti clientelari. Eppure, il passo in avanti è evidente.
La cosa curiosa è che tutte queste innovazioni non stanno nella modifica dello Statuto vera e propria, bensì nella tanto discussa norma transitoria. In pratica, il Consiglio provinciale potrebbe anche fare una legge per rimettere tutto com’era prima (e probabilmente, speriamo di sbagliarci, ci proverà), ma il Parlamento ha stabilito che sino a quando il Trentino non disporrà altrimenti varranno queste regole. Il vero nocciolo di questa riforma dello Statuto è dunque proprio la norma transitoria. Anzi, la riforma dello Statuto serviva soltanto per fare la norma transitoria, senza la quale quella riforma non avrebbe avuto alcun significato. Chi ha sostenuto che la norma transitoria era solo un’appendice della riforma statutaria, lesiva dell’autonomia, ha insomma cercato di infinocchiarci, buttava fango in campo. C’è voluto un bel coraggio per sostenere che l’autonomia sta meglio se immersa nel fango, eppure in molti ci sono cascati.
Ma chi sono stati questi eroi che, invece, il fango l’hanno spalato?
All’infuori del ristretto ambito degli addetti ai lavori, questa riforma ha avuto un larghissimo consenso di opinione pubblica. Dai vari Fabbrini, Toniatti e Arena, all’Adige di Visetti (ora direttore dell’Alto Adige), alla cui campagna per la riforma elettorale aderirono sindacati, imprenditori, associazioni e (guarda caso) quasi tutte le forze politiche. Fino, ovviamente, al contributo d’idee che questo stesso giornale non ha fatto mancare. Come anche, non si può dimenticare che una buona parte della strada fu spianata, nella scorsa legislatura regionale, dal lavoro di Wanda Chiodi e dalla sinistra guidata da Stefano Albergoni.
Alla prova dei fatti, però, a rimanere fedeli agli impegni, tra gli addetti ai lavori della politica, sono stati in pochi. E pertanto, la riforma ha rischiato più volte di essere affossata. Se ciò non è avvenuto, dobbiamo ringraziare solo pochissime persone.
Anzitutto Marco Boato, padre assieme a Mario Raffaelli della riforma. A Boato, che in Parlamento è stato efficacissimo, va anche il merito di aver sapientemente agganciato la riforma del nostro Statuto a quella delle altre Regioni speciali, garantendole così quei voti che, altrimenti, sarebbero mancati. Un comportamento lineare è stato tenuto da Olivieri, Schmid e Detomas, assieme all’intera delegazione parlamentare della SVP. Olivieri, in particolare, ha sfoderato tutte le armi in suo possesso, anche le meno politicamente corrette, per tamponare in più occasioni i vari tentativi di affossamento, qui e a Roma.
Più di ogni altra cosa, però, è stata determinante - in diversi frangenti cruciale - la posizione assunta da Margherita Cogo, presidente della Regione. Sia chiaro, senza di lei la riforma dello Statuto, probabilmente, sarebbe stata approvata lo stesso. Però, di sicuro, senza di lei nella riforma dello Statuto non ci sarebbe stata la norma transitoria, che appunto ne è, alla fin fine, il cuore. Rischiando consapevolmente di rimetterci il posto, Margherita Cogo si è apertamente schierata a favore della norma transitoria, nonostante l’intera parte trentina della sua maggioranza fosse di diverso avviso (e la parte altoatesina indifferente). In questo modo ha impedito, talvolta sul filo del rasoio, che il Consiglio regionale si esprimesse contro la norma transitoria, offrendo così una sponda formidabile a quanto si andava delineando in Parlamento.
Dellai e Leveghi, per esempio, nella fase iniziale erano esplicitamente contrari a quella norma, salvo poi cambiare opinione, o riparare nel silenzio, nel momento in cui si sono resi conto che sarebbe passata comunque. La Cogo, invece, nelle audizioni parlamentari a Roma andava a dire: "Io rappresento la Regione e la Regione vuole questa norma transitoria". Tiè!
E ai senatori trentini che cercavano di fare i furbi (quando tentavano di affossare la norma parlando da rappresentanti della Regione), faceva arrivare sonore bacchettate sulle manine, sbugiardandoli platealmente di fronte al presidente del Senato. Chissà, forse se la sinistra avesse usato, in Giunta provinciale, la stessa irresponsabile rocambolesca spavalderia usata da Margherita Cogo su questa riforma, oggi non saremmo qui a parlare di allarme rosso per l’ambiente. Chissà.
Intanto, ci piaccia o meno Margherita Cogo (alla quale QT, peraltro, non ha mai risparmiato critiche, anche dure), oggi possiamo dire che, se alle prossime elezioni voteremo con un sistema diverso, dobbiamo ringraziare anzitutto lei. E se a questo sommiamo l’involontario aiuto di Roland Atz, vicepresidente SVP dell’esecutivo regionale, contrario a discutere in Regione di una questione solo trentina (la norma transitoria, appunto), scopriremo (ohibò!) che questa Giunta regionale non è poi tutta da buttare. Al di là di tutto, insomma, alla fine ciò che conta sono i risultati. E ad un risultato, oltretutto importantissimo, qui ci si è arrivati… e non si tratta di impianti in Val Jumela.
Per il resto, i politici trentini, salvo qualche eccezione, si sono divisi tra chi ha fatto spallucce e chi ha apertamente combattuto questa riforma. Unica rilevante nota di merito spetta a Maurizio Perego di Forza Italia, che in pubblico ha sostenuto riforma e norma transitoria, anche prendendo le distanze dal proprio partito.
P. S. Sul perché questa riforma non significa affatto la morte della Regione (come qualcuno ha voluto dare ad intendere) ma semmai il contrario, abbiamo già scritto più volte: quello della morte della Regione è l’alibi accampato da chi nuota meglio nel fango.