Università: la Pat al comando?
Gli incerti esiti della provincializzazione dell’Ateneo. Rischi e prospettive
“Non si chiama provincializzazione, cominciamo male...” ci dice il Rettore Bassi appena iniziata l’intervista. E si capisce, perché il nodo della questione è proprio questo. Il nome ufficiale è ovviamente indigesto (per la precisione “delega dallo Stato alla Provincia delle funzioni economico-amministrative in materia di università degli studi di Trento”) ma più neutro: non evoca il potere provinciale come possibile nuovo padre-padrone dell’Università. E quando, alla recente presentazione dello studio dell’Opes sulle ricadute economiche dell’Università, abbiamo osato mettere in dubbio l’opportunità di assegnare tali ricerche a istituti troppo contigui ai soggetti interessati, e più in generale abbiamo evocato il pericolo che una gestione dell’ateneo troppo fatta in casa lo soffocasse, è stato come se avessimo gettato una molotov sul tavolo della presidenza: Dellai e Bassi replicavano imbufaliti, mentre poi i professori presenti ci dicevano: “Eh sì, l’autonomia dell’Università... è questo il problema”.
Insomma, quale sarà il cambiamento? Ci ritroveremo un’Università in mano alla Provincia o semplicemente un ateneo che funziona con i soldi trentini invece che romani?
E ancora: l’università statale, anche quella uscita dalla tanto deprecata riforma Gelmini, è un ente che si autogoverna. Si dice che “se la Pat ci mette i soldi, è logico che poi voglia comandare”; ma Roma ci mette i soldi, magari di meno, eppure non pretende di avere in mano gli atenei. Perché mai Trento dovrebbe invece essere così pervasiva da voler comandare lei quando subentra a Roma?
La situazione è chiarissima agli occhi del Rettore, e lui non mostra alcuna incertezza: sa cos’è giusto fare per il bene dell’università e non è disposto a discuterne troppo con chicchessia.
Il suo disegno, nell’insieme, è coerente. Il piano che propone, le risposte che offre ai problemi attuali, sensate.
Ma andiamo con ordine, e vediamo a che punto siamo in questo complicato processo.
Un po’ di storia
Nel novembre 2009, con quello che è stato definito “l’accordo di Milano”, Tremonti ha consegnato a Dellai una delega economico-amministrativa sull’Ateneo, senza peraltro che nessuno si sia disturbato ad avvisare l’oggetto dell’accordo, l’università.
Una commissione provinciale, con il Rettore Bassi come unico rappresentante del mondo accademico, ha reso pubblico nel luglio 2010 un rapporto di una ventina di pagine che delinea nel dettaglio cosa si prospetta per il futuro dell’università.
L’organizzazione proposta prevede un ruolo di controllo molto ampio, quasi di dominio, della Provincia sull’Ateneo, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei vertici. Il documento chiarisce, anche troppo, le intenzioni della Provincia, e suscita proteste veementi, da parte degli studenti (con l’occupazione di cui abbiamo parlato nei numeri di dicembre e gennaio) e, con un duro comunicato, da parte del Senato accademico.
“Noi speriamo vivamente che l’università non diventi strumento di consenso politico utilizzabile dalla classe dirigente trentina, non ci sarebbero prospettive di sviluppo” afferma Lorenzo Pelle, rappresentante dei dottorandi.
La palla passa a questo punto alla commissione paritaria stato-regione (Commissione dei Dodici) che predispone una nuova bozza di legge in cui il ruolo della Pat viene significativamente ridimensionato (vedi tabella).
Provincia v/s Ateneo?
Insomma, la Provincia ci ha provato. Ha tentato di mettere le mani sull’Ateneo, poi è dovuta arretrare.
Ma a questo punto, al cittadino può sorgere un dubbio: perché mai si dovrebbe rischiare di avere un Ateneo provincialotto, gestito dalla politica come si fa con le Asl? Perchè, pur con i più sicuri denari provinciali, non restare ancorati allo schema nazionale, di una università sostanzialmente autogestita?
“No, avere stimoli esterni da parte di un soggetto che mette risorse, e che devi convincere, può essere positivo - risponde Paolo Collini, preside di Economia - Il punto è che la Pat dovrà avere il coraggio di non voler essere determinante”. “Sarebbe sbagliatissimo rimanere abbarbicati al presente, temere il cambiamento” incalza Luca Nogler, preside di Giurisprudenza.
Roberto Pinter, membro della Commissione dei Dodici, mette i piedi nel piatto: “L’Università non può essere autoreferenziale, obbedendo a logiche che possono essere corporative, più finalizzate agli obiettivi dei docenti che non a quelli dell’istituzione. I concetti di valutazione del lavoro svolto, di trasparenza, diventano operativi se l’Università non risponde solo a se stessa”.
Da altri presupposti leggermente diversi parte l’analisi del Rettore.
Egli, in sostanza, trova che i tempi economici e sociali attuali richiedano cambiamenti decisi e coraggiosi per consolidare ciò che a Trento già abbiamo e per evolvere in qualcosa di meglio. Prima di tutto intende scongiurare ad ogni costo il dissesto economico, condizione molto diffusa negli atenei italiani: “Lo sa che 36 università devono portare i libri in tribunale? Significa che il 40% delle università in Italia dovranno andare a pietire prestiti o aiuti ovunque, perché stanno fallendo! Le sembra autonomia questa?”
Da ciò la strategia di puntare su un Consiglio di Amministrazione non più come banco di rappresentanza dei vari interessi, ma formato da pochi tecnici in grado di garantire sempre e comunque che i conti siano in ordine. “A Siena il CdA democraticamente eletto ha votato qualsiasi previsione di bilancio, per anni. Hanno democraticamente votato di avere oggi 260 milioni di debito!”
Il disegno proposto sembra risolvere con efficacia alcuni difetti dell’amministrazione attuale: “Ora abbiamo alcuni in CdA che non hanno neppure le competenze per leggere un bilancio, invece ci occorre un ‘mastino della stabilità economica’, che sia in grado di dire no ad un Rettore che vuole spendere i soldi che non ha quando è in cerca di facile popolarità”.
Insomma, nella partita Provincia\Università si è inserito il Rettore, con una sua visione: per non finire a gambe all’aria urge una concentrazione del potere.
A parte il fatto che l’attuale struttura (“pur lenta e ridondante” come ammette il preside di Sociologia Bruno Dallago) ha sempre funzionato piuttosto bene, e per esempio il Cda non si è certo opposto quando Bassi e il presidente Cipolletta hanno imposto la via dei tagli per non farsi trovare impreparati di fronte alla crisi economica in arrivo, le idee del Rettore, accusate di basso tasso di democraticità, non sono certo molto popolari. Si parla di tendenza ad una “monarchia rettorile”.
Conclusioni: Bassi è riuscito a riservare al Rettore un ruolo dominante in questa fase transitoria (nella Commissione per lo Statuto, oltre a lui e al presidente Cipoletta ci saranno solo membri nominati da lui e da un’altra autorità). E nella contesa fra Provincia e università, tra il primo Rapporto del luglio scorso e la successiva bozza del gennaio 2011 c’è un riequilibrio a favore dell’Ateneo di cui in tanti - Rettore, Senato Accademico, membri della Commissione dei Dodici come Pinter - si attribuiscono il merito. Ma forse, oltre ai singoli meriti, si tratta di una presa d’atto che per governare una struttura delicata e complessa come l’università, occorre condivisione.
Cambiar bisogna
In realtà la necessità di cambiamento è molto sentita ai vari livelli. “Io sono sconfortato da come l’università è stata gestita a livello statale: un modello tutto puntato sui divieti, per impedire che i furbi combinino troppi danni - ci dice Paolo Collini, ma con parole poco diverse si associano gli altri presidi, il Rettore e pure Pinter - Ma i furbi aggirano le regole, e noi ci troviamo impacciati, e non riusciamo ad essere competitivi a livello internazionale”. Con le attuali limitazioni, l’università trentina non può né assumere, né sviluppare come vorrebbe i rapporti con l’estero.
Insomma, cambiare per fare meglio.
Anche se c’è chi avverte: “Attenzione, mettendo in relazione i risultati con gli investimenti le università italiane sono tra le prime 50 d’Europa, all’estero l’investimento per studente è incredibilmente maggiore. In Italia il problema è che l’università è sottofinanziata” - avverte Claudio Della Volpe, rappresentante dei ricercatori.
Per Della Volpe l’università di Trento ha un buon funzionamento: “Andrebbe potenziata, non stravolta, seguendo chimere internazionali irraggiungibili. La Provincia si è imbarcata in questa avventura senza valutarne bene le conseguenze. Una research university sul modello californiano di cui ci si riempie la bocca abbisognerebbe di investimenti 4-5 volte superiori a quelli previsti. Questo è il punto. Si pensa invece di attuare questa impossibile competizione stravolgendo l’attuale struttura in nome di un teorico efficientismo; ma si finisce per perdere in democrazia e in rapporti con il territorio, che organismi più ampi, come l’attuale Cda, assicurano”.
La ricerca
Al di là delle sparate sulle università americane, in effetti uno dei nodi principali è la ricerca. E il timore che la possibile invadenza della Provincia ne condizioni indirizzi ed esiti. Nelle varie facoltà, in cui si sa che in tanti lavorano come consulenti di Piazza Dante, si sa benissimo come vanno queste cose: con lo studio condotto in modo da non dare i risultati contrari alle aspettative del generoso committente; che poi, se i risultati non sono graditi, li infilerà in un cassetto.
Questa prassi, ben nota e consolidata, non è che si può ripercuotere anche sull’insieme della ricerca, una volta che la Pat è in una posizione dominante?
“La nostra università è ora una delle migliori d’Italia; se ci vendessimo alla Provincia perderemmo entrambi in credibilità. Non credo proprio che accadrà, sarebbe un pessimo affare per tutti” ci dice il preside Dallago.
“Siamo delle persone serie - conferma Collini - e questo è il nostro capitale, che intendiamo tenerci stretto”.
Detto questo sui distorcimenti (non tanto campati per aria: tutti ricordiamo l’incredibile studio per cui l’inceneritore ottimale per il Trentino doveva essere, secondo i desideri di Trentino Serivizi e la conseguente opinione dei docenti di Ingegneria, di 330.000 tonnellate; quando oggi viene appaltato uno da 104.000 tonnellate e ancora è troppo grande), il punto centrale è sugli indirizzi che la Pat vorrà imporre alla ricerca.
“Beh, è inevitabile e anche giusto: anche l’Unione Europea indice dei bandi per ricerche su temi specifici” sostiene Collini.
Il meccanismo sarà il seguente. Oggi la ricerca è finanziata dallo Stato attraverso un apposito Fondo, soldi che l’università gestisce in totale autonomia; in più ci sono risorse aggiuntive messe a disposizione dalla Provincia attraverso un Accordo di programma tra Rettore e Presidente della Giunta, che stabilisce le aree di intervento. Con la provincializzazione la Pat dovrà finanziare la parte una volta sostenuta dallo Stato senza sostanzialmente metterci becco, e la parte aggiuntiva verrà stabilita con legge provinciale.
“In questo campo preferisco una presenza politica che chiede di più, con qualche rischio, rispetto a uno Stato che lascia l’università alla deriva - afferma Pinter - Certo, per rapportarsi positivamente, la Provincia deve essere attrezzata, avere competenze, altrimenti c’è il rischio forte del provincialismo e della banalità, tipo ‘vogliamo ricadute sul territorio’. Comunque, discrezionalità politica no, ma meccanismi di valutazione senz’altro. Che non possono che fare bene alla stessa università”.
Didattica, la cenerentola?
E la didattica, quale ruolo potrà avere? “I conti tornano se abbiamo studenti, come ha sottolineato anche una recente ricerca (vedi scheda, n.d.r.) - afferma Collini - Questo è tanto vero che le università research oriented di cui tanto si parla, come Stanford, hanno migliaia di studenti”.
“Sì, dobbiamo avere tanti studenti, perché la qualità della didattica si misura dalla quantità di studenti da fuori provincia - concorda il preside Nogler - I quali, oltre a confermare il prestigio delle facoltà, sono anche portatori di ricchezza per il territorio”.
L’Università? Comunque, un affare
Studiare l’impatto di FBK e l’università sul PIL trentino, questa l’intenzione dello studio condotto dall’OPES e recentemente presentato alla cittadinanza. Il dato che ne esce può sorprendere: con l’Università e con la ricerca si guadagna. E non solo in termini di capitale sociale, e quindi sul lungo periodo, ma anche qui ed ora.
Per quanto riguarda l’università, gli studenti affittano, comprano, spendono, portano soldi insomma, e il numero degli iscritti contribuisce in modo decisivo non solo a pareggiare i soldi pubblici (sia provinciali che statali) investiti nell’ateneo, ma a portare il conto in attivo: se la Provincia spende 100 euro per l’università, al Pil trentino ne arriveranno in cinque anni 106,7. Bisogna però considerare che nel breve periodo il valore aggiunto è generato solamente dall’apporto delle spese degli studenti. Senza questi ultimi i costi sarebbero superiori ai guadagni prodotti.
Ma, ed ecco qui la sorpresa, persino FBK è in positivo (restituendo 103,8 euro per ogni 100 di finanziamenti pubblici), il che potrebbe suonare strano, visto che si parla di ricerca, settore in cui molte delle spese (basta pensare ai macchinari dei laboratori) non vengono effettuate in loco; qui aiutano invece i finanziamenti provenienti dall’Unione Europea.
Lo scopo di questa ricerca? Convincere i trentini, anche i più refrattari, che accollarsi tutto l’onere dell’università attraverso il processo di delega è comunque, a prescindere dagli altri effetti sulla società, un affare.