Avevo un bel pallone rosso
La modernità irrompe in paese
Quando le luci si spengono e compaiono in scena - nella penombra di un interno piccolo-borghese - Angela Demattè e Andrea Castelli (che interpretano Mara Cagol, studentessa cattolica trentina diventata una delle fondatrici delle BR e morta poi con le armi in pugno, e suo padre), all’inizio lo spettatore ha l’impressione di trovarsi ad assistere ad una delle tante commedie dialettali trentine, e non solo per la lingua che parlano i personaggi, un annacquato dialetto trentino. È che quella tradizione è proprio il punto di partenza di questa operazione teatrale (che però in realtà la rovescia). È la caratterizzazione dei personaggi - nello spettacolo anche un po’ più “paesani” di quanto fossero davvero le figure storiche di riferimento - a creare quella che sembra una comune base di partenza. Una realtà fatta di piccole cose quotidiane, che si dipanano in un tinello chiuso in faccia al vasto mondo, per le vicende del quale si ha un ironico sorriso, che nasconde un certo timore, e comunque una sostanziale estraneità. È la Weltanschauung valligiana, così come è stata raccontata, per decenni, dalla tradizione del teatro dialettale trentino. Il quale però si ferma alla superficie, non ne va mai oltre, evitando di affondare il bisturi nel nucleo di verità problematiche che questa potrebbe racchiudere. Per non correre il rischio che ne venga fuori invece dell’edificante svago da teatro parrocchiale che ne è l’origine storica, qualcosa di aspro e di invece inquietante, come sono tutti i veri tentativi di “conoscenza”. Questa è una tradizione che si è costituita a partire dagli anni fra le due guerre mondiali, e da allora per decenni ha battuto a tappeto i teatrini di paesi e città, dando un forte contributo all’idea che i trentini hanno avuto di se stessi, ribadendo una loro distanza prima dalla retorica fascista, poi da quella delle magnifiche sorti e progressive della modernità.
Da questa tradizione arriva non solo Andrea Castelli, che - sappiamo tutti - ne è il più grande erede, ma anche la trentenne Angela Demattè, diplomata all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, che anche se dal 2000 ha calcato i palcoscenici di ottimi teatri italiani, e il set di un paio di film, ciò non di meno non manca di ricordare, in una intervista che compare in rete: “alle superiori facevo parte della filodrammatica di Vigolo Vattaro”.
In verità già Castelli aveva cominciato a trascendere questa tradizione con spettacoli di grande intensità come “1950”. Ma certo con questo spettacolo - che racconta drammaticamente una separazione, dovuta all’impossibilità di continuare a parlare la stessa lingua - questa tradizione implode al proprio interno, e ne esce un teatro di grandi verità, anche se solo pudicamente accennate, con misura essenziale, etica ed artistica.
Diciamo che questo non è uno spettacolo sul terrorismo. È proprio la storia del rapporto padre/figlia, di una visione del mondo intima e famigliare, concentrata “sulle cose che contano davvero”, cioè quelle che garantiscono la riproduzione di quello stile di vita, che non riesce a trasfondersi nella sua posterità. La chiusura al mondo del tinello famigliare viene infranta dagli echi della globalizzazione che entrano con gli slogan della figlia (sul Viet-nam, sulla Cina), e si apre uno squarcio, una dolorosissima ferita, una mancanza di futuro, che solo l’affetto prova a lenire.
Angela Demattè, che, oltre ad interpretarlo, è anche l’autrice del testo (vincitore nel 2009 del prestigioso Premio Riccione per il Teatro) ha detto di averlo scritto per cercare di “sviscerare il dramma di un periodo, da cui parte la nostra cultura, la nostra visione del mondo”. E in effetti c’è nel suo testo un racconto efficace di come la modernità si sia abbattuta violentemente su un mondo ancora impregnato dal senso del limite della cultura contadino-cattolica, e nel personaggio di Mara inscena una secolarizzazione mancata, il passaggio da una impostazione religiosamente escatologica, ad una politica di palingenesi rivoluzionaria vissuta come rigida ideologia, altrettanto estranea al reale mondo moderno.