Avevo un bel pallone rosso
Un pallone destinato a scoppiare
Dello spettacolo di Andrea Castelli abbiamo già parlato nel numero scorso; ma ci torniamo perché la pièce, che a livello di opinione pubblica ha suscitato un dibattito insolito per un evento teatrale, merita qualche altra considerazione. E ci torniamo per dire che quando uno va a teatro si porta dietro se stesso, la propria (in)cultura, (in)esperienza, gusti e disgusti. È inevitabile, è umano. Nel caso di “Avevo un bel pallone rosso” i pregiudizi erano in agguato: un testo di autrice trentina (Angela Dematté) dedicato a Mara Cagol, co-fondatrice delle Brigate Rosse (insieme al marito Renato Curcio e ad Alberto Franceschini), trentina ella stessa, si prefigurava come una romantica storia di una “compagna che sbagliò”, e per di più - se possibile - con un’insopportabile venatura campanilistica. La presenza di Andrea Castelli e la certezza che parte del dramma sarebbe stata recitata in dialetto trentino non invitavano a pensar diversamente, nonostante le doti dell’attore e nonostante il premio “Riccione” vinto dall’opera di Dematté nel 2009.
Se si legge la presentazione di uno spettacolo, finisce che ci si va a sedere in platea con attese e timori. Con pregiudizi, insomma, e forse maldisposti. Per pensar male bastava il sospetto n° 1, “la beatificazione della vittima dei propri puri ideali e conseguenti errori”. Nulla di tutto questo. Con la regia di Carmelo Rifici (cui si può solo rivolgere un piccolo biasimo per la staticità dei movimenti di scena e lo sbilanciamento sulla destra del palco) il rischioso - in partenza - dialogo tra padre e figlia è filato abbastanza liscio fino in fondo, grazie all’efficacia della scrittura drammaturgica e all’impegno dei due attori. Apprezzabile, come sempre, la naturalezza di Castelli nell’utilizzare quel dialetto amato-odiato, di cui un giorno ebbe a lamentare la difficoltà nell’esser preso sul serio a teatro (“è in dialetto? Allora fa ridere!”). Il lavoro di Dematté dimostra, una volta di più, che il dialetto è una lingua come le altre, e che dipende dalla scrittura se debba far ridere o suscitare riflessioni serie. Non che non vi fosse qualche vena umoristica, nella parte di Castelli; ma ciò lo si deve piuttosto ritenere dovuto alla necessità di alleggerimento riguardo a un testo in cui è descritto il progressivo fanatismo di una ragazza di buona famiglia, fino al tragico epilogo.
La stessa autrice, in scena, si è riservata la parte teatralmente meno accattivante: una recitazione talora, e necessariamente, appiattita sul linguaggio arido e non di rado astruso dei comunicati politici delle BiErre, forse un po’ appesantita dall’impiego di espedienti drammaturgici poco attraenti, se reiterati, come la scrittura/lettura di una lettera. Il padre di Mara assiste impotente, ma partecipe, al distacco della figlia dai valori dell’aurea mediocritas in cui egli cerca di rassegnarsi a vivere e a cui vorrebbe associare quella studentessa animata da inquietudini sociali e politiche. Nessun romanticismo, nessuna indulgenza, né alcun segno di cedimento campanilistico: la scansione in scene cronologicamente distinte e segnalate rende cronachistico il racconto, come se si osservassero in vitro dei fenomeni biologici. Una storia sbagliata, direbbe De André, ma che val la pena di raccontare.