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QT n. 9, ottobre 2010 Monitor: Arte

Vedere con mano

In principio fu il tatto

Alessandra Chiogna, Articolo 18

Vedere con mano è una mostra in gran parte al buio. Un’esperienza destinata, nel tempo dello strapotere delle immagini, a smuovere alcune abitudini mentali, basata sull’idea che una scultura può essere meglio goduta se interviene anche il tatto, organo sensoriale che ci ha permesso la prima esperienza di noi stessi e del mondo. Il progetto ebbe il suo antefatto lo scorso anno al forte di Civezzano, nella mostra di Gianfranco Della Rossa, ed ora è diventato un concorso rivolto agli studenti delle accademie d’arte italiane ed europee: questa è la mostra delle loro opere

Quando mi è stato proposto di commentarle, come contributo al catalogo, ho dovuto misurarmi col limite esclusivamente visivo della mia esperienza estetica. Col senno di poi, sarebbe stato meglio “vedere” dapprima solo con mano, esattamente come si propone di fare ai visitatori della mostra. In compenso, gli amici non vedenti, accompagnandomi, mi hanno regalato il loro “punto di vista”.

Come hanno risposto gli scultori “in formazione”, all’invito di realizzare un’opera destinata anche alla fruizione tattile, in cui vedenti e non vedenti siano messi su un piano paritario? In molti ha prevalso l’idea del corpo. Col corpo sembra di andare sul sicuro: immediatamente riconoscibile, costituisce nella sua interezza un organo del tatto e al contempo il suo oggetto privilegiato, perché tocca ed è toccato.

Ma non è così semplice. Se scegli, poniamo (lo fanno in diversi), la forma della mano, il problema è sfuggire all’abuso che ne è stato fatto. Una cosa è esaltare la funzione tattile evocandone l’emblema, e allora scegli una via simbolica; un’altra cosa è mobilitare questa facoltà percettiva verso un più ampio e libero lavoro dell’immaginazione: come accade nelle opere dove percepisco, ad esempio, l’impronta della mano in una materia grezza, e allora il pensiero va anche a quegli aspetti di lavoro creativo, legati alla mano, che hanno permesso all’uomo di diventare, secondo gli antropologi, ciò che è diventato. O, anche meglio, quando la traccia nella materia è impressa da altre parti corporee, tra suggestioni fossili e rimandi alla Body art.

La questione del corpo è centrale, si disponga o meno della vista. Avere o no un buon rapporto con la propria e altrui corporeità, fa differenza anche nello sviluppo di quella tattilità generale che gli psicologi chiamano il senso aptico. Non è scontato, d’altra parte, che chi non dispone della vista sviluppi, quasi come necessaria conseguenza, un rapporto armonico col corpo, processo che appartiene allo sviluppo della personalità.

Qui si incontrano rappresentazioni della figura umana che non rinunciano a valenze erotiche. Quasi sempre accompagnate però da spunti e sentimenti meno ovvi: una bella ragazza (in gesso), che ha l’aria di essere il calco di un corpo vero, depositata dentro una cassa foderata di velluto, esprime, più che erotismo, una vena di humour nero. Oppure, una serie di seni dalla diversa superficie è una campionatura giocosa e tenera di altre differenze. Ancora, la figura di una donna incinta parrebbe anch’essa un calco dalla realtà: la differenza sta tutta in una misteriosa mappa di segni incisi sul ventre.

Un altro aspetto che mi incuriosisce, dialogando con gli amici non vedenti che mi accompagnano, riguarda la diversa reazione davanti ad un’opera “figurativa” e ad una “astratta”, quando siano lette solo con il tatto. Sulle prime scatta, inevitabile, il gioco del riconoscimento (“È un maialino; no, è un elefante”) e, quando la forma non è riconoscibile, c’è una reazione smarrita. Ma, superata questa fase iniziale, in cui le figure realistiche sembrano più rassicuranti, certe forme, che per semplicità chiamiamo “astratte”, recuperano terreno nella capacità di attivare l’immaginazione, la memoria, la fantasia; fanno scoprire il piacere di entrare in un gioco di associazioni più libero e personale.

Incontriamo, ad esempio, quattro o cinque opere di rilettura di forme organiche, primarie, che a mio parere sono tra le migliori qui presentate, (una sorta di seme gigante; un albero “fossile” che ne contiene uno organico; una forma cava coperta da tracce di molluschi; un disco in materiale quasi lavico che pare una cellula ingrandita; un gesso patinato che è la resa plastica di un ininterrotto gioco di linee curve) perché possiedono la capacità, non comunissima, di metterci in contatto con aspetti originari, sensazioni primigenie.

Diversamente da quegli artisti che si sentono liberi di divertirsi e divertire con forme e abbinamenti surreali (la scarpa da donna “chiodata”; il pollo “ripieno”; la “culla sonora”) e che si fanno apprezzare, oltre che per l’idea, per la sua piena percepibilità tattile, alcuni giovani autori restano invece impigliati in un simbolismo serioso. Altri non risolvono in modo convincente il rapporto tra la superficie e la forma, talvolta sovraccaricando l’una e l’altra in assemblaggi complicati, poco decifrabili, non meno alla vista che al tatto; oppure cercano di appagare in modo separato un senso o l’altro. Questa prima edizione del concorso si affidava a un filtro qualitativo dei docenti che in alcuni casi non ha funzionato: in futuro, a mio parere, un ulteriore vaglio preventivo delle opere da esporre non può che giovare a tutti.

Ma la capacità di far proprio il problema percettivo e la qualità tutt’altro che scolastica di molti lavori, le risposte emotive che hanno suscitato in quanti finora hanno potuto goderne, lasciano un’impressione di vitalità e fecondità di questa proposta creativa mirata alla rivalutazione del tatto. La quale sta già dimostrando quanto sia infondata l’idea che l’emozione estetica sia legata esclusivamente a quell’organo della distanza, del distacco, della presunta astrazione, che è l’occhio. Le nostre facoltà di emozione e immaginazione si giovano di ogni capacità percettiva disponibile. I vedenti spesso se ne dimenticano.

Trento, Palazzo Geremia, fino al 30 ottobre

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