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La crisi e il porfido

Thomas Ferrari

La crisi economica attraversa anche il settore del porfido. In un anno e mezzo si sono persi più di 150 posti di lavoro. Lavoratori licenziati lasciati, nella migliore delle ipotesi, con il solo sostegno della mobilità (circa 830 euro al mese). Il Presidente del Distretto del porfido e delle pietre trentine, Mariano Gianotti, in un suo intervento ad Albiano nel Consiglio comunale del 23 luglio, metteva in rilievo il deficit del settore. Un inadeguato livello culturale, utili d’impresa poco investiti, scarsa considerazione della professionalità e conoscenza maturata in decenni di lavoro dagli operai più anziani, qualità dei prodotti, introduzione di nuove tecnologie, e la produzione, che va sempre mantenuta al di sotto della domanda.

Uno degli elementi più importanti in tempi di crisi è la struttura della produzione. Per il settore del porfido, vi sono alcune incongruenze operate da amministrazioni pubbliche e dalle aziende. Ad Albiano, come negli altri Comuni del porfido, si è più attenti nei confronti dell’interesse particolare a scapito di quello generale. In tutti gli strumenti urbanistici si è sempre puntato ad ottenere il massimo delle potenzialità estrattive, arrivando a prevedere negli ultimi piani-cave comunali (Albiano, Lases) esorbitanti volumi di roccia da estrarre. Volumi che, più che sulle stime degli anni precedenti, si basano sull’ingordigia. Attenzione agli interessi particolari significa aumento della frammentazione aziendale, con ripercussioni sulle capacità sia di investimento, che nel campo dell’innovazione tecnologica. Non solo le amministrazioni comunali hanno grosse responsabilità su come avviene lo sfruttamento dei giacimenti, ma anche a livello provinciale, con la nuova legge del 26 ottobre 2006 n°7, si è sprecata un’occasione per rendere il comparto degno di definirsi un distretto. Manca una progettualità e un’identità in grado di rispondere alle crisi di mercato. Uno degli elementi che hanno caratterizzato le imprese del porfido e che oggi è fonte di problemi, è la dimensione d’impresa, con una frammentazione dei lotti-cava che non permette un’organizzazione del lavoro efficiente. L’unificazione dei lotti avrebbe posto le basi per una seria politica estrattiva. La legge provinciale non ha voluto affrontare questo nodo (la lobby porfidara è sempre stata molto presente) lasciando pressoché immutata la situazione. Ecco perché oggi i lavoratori subiscono i licenziamenti. Si persegue una politica irrazionale ed egoista, che si pone come unico obiettivo il massimo profitto col minimo investimento e si scaricano sulla collettività tutti gli oneri, compresi gli ammortizzatori sociali per i licenziati.

In questi ultimi anni, i volumi d’escavazione si sono mantenuti stabili o in leggera flessione, nonostante i massicci licenziamenti. Questo è dovuto principalmente alla vendita del tout-venant e del grezzo per la seconda lavorazione. Esternalizzando ad artigiani una fetta consistente della lavorazione, innescando una forte concorrenzialità sul prodotto finito ed in generale determinando un abbassamento della qualità. Mentre queste nuove figure di lavoratori autonomi lavorano a pieno ritmo (10 ore al giorno sabato compreso), i dipendenti, oltre ad avere il rinnovo contrattuale bloccato da un anno ed essere licenziati, oggi scoprono anche la cassa integrazione estiva. Diverse aziende, in particolare associate al Consorzio di Albiano, hanno messo in cassa integrazione i lavoratori, chi per una settimana, chi per due. In momenti di crisi sembra sufficiente l’autocertificazione perché qualcuno sborsi denari; forse sarebbe il caso di verificarne anche i fatturati. Si attinge alla cassa integrazione del piano anti-crisi provinciale, come ulteriore passaggio che sancisce, formalmente, la crisi del settore. Passaggio che non risolve nulla rispetto a difficoltà che alcune aziende possono avere. Una o due settimane di CIG non cambiano nulla sulla produzione complessiva, ma possono essere utili come forma di pressione sui lavoratori oppure per accedere a finanziamenti pubblici. Sono comportamenti che da un punto di vista etico e sociale pesano, perché tolgono risorse pubbliche a chi veramente ne ha bisogno. Nel settore del porfido non siamo ancora nella necessità di richiedere CIG speciale generalizzata, per il semplice motivo che la produzione di quest’anno sta trovando spazio nei mercati, grazie anche ai lavori pubblici anti-crisi finanziati dalla Provincia. Nei piazzali di una parte delle aziende i depositi di prodotto finito si riferiscono alle rimanenze dell’anno precedente (2008), rimaste invendute. Questo è verificabile da chiunque voglia farlo, anche dai sindacati, che finora hanno avallato l’operato di chi licenzia e mette in cassa integrazione. Gran parte dei lavoratori messi in CIG speciale ad agosto, lo hanno appreso da uno scarno comunicato aziendale affisso nelle bacheche, dove si informava che l’azienda faceva richiesta di CIG per eccessivo deposito di materiale invenduto.

Un esempio significativo è il licenziamento di 10 lavoratori di un’azienda di Albiano, concessionaria di un lotto-cava pubblico. Sebbene il comune di Albiano abbia fatto pressione sulla ditta per il ritiro dei licenziamenti attraverso una diffida che ha permesso di raggiungere un accordo tra le parti e scongiurare quindi questa eventualità, rimane tuttavia da chiarire il futuro dei lavoratori per i prossimi mesi. Si tratta a nostro avviso di un passo nella giusta direzione, ma vanno fatte alcune considerazioni.

In primo luogo non si capisce come sia possibile, a poco tempo dall’approvazione del nuovo programma di attuazione sovracomunale per l’area del Monte Gorsa, che la ditta lamenti l’impossibilità di scavare. Se la situazione è questa, come mai, solo pochi mesi fa, la ditta ha assunto un dipendente? Più che di crisi di mercato, si dovrebbe parlare di pessima gestione, oppure, di progettazione approssimativa. In ogni caso si dovrebbero cercare responsabilità precise e non invocare un generico “rallentamento dell’attività estrattiva determinata dalla crisi congiunturale e dalla situazione della cava di Monte Gorsa” (come riporta L’Adige, dell’8 agosto).

Da tempo abbiamo sollecitato i sindacati ad assumere il problema dei licenziamenti come problema collettivo e a far valere presso i comuni e le ASUC (proprietari dei lotti-cava) quanto previsto per la tutela dei posti di lavoro, dalla legge provinciale n° 7 del 2006, dai piani di coltivazione aziendali e dal disciplinare cave. Il Contratto di Solidarietà da noi sostenuto, dove si interveniva sulla soglia del cottimo abbassandola o eliminandola completamente a seconda delle necessità delle aziende in crisi, dando all’ente pubblico (Comuni, Provincia, e ASUC) ruolo di regia e controllo nel rispetto degli accordi sottoscritti, andava nella direzione di una assunzione di responsabilità di tutti i soggetti, compresi i lavoratori. Non è infatti eticamente accettabile che si licenzino lavoratori e si richieda CIG speciale, continuando poi a far fare straordinari o super produzioni a chi rimane a lavorare. Forse non siamo più in tempo, ma per dare una speranza di futuro al settore del porfido sarebbe necessario ripensare ad un’organizzazione del lavoro e dello sfruttamento dei giacimenti più sostenibile e compatibile sia con l’ambiente in generale che con l’umanità che vi lavora.