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QT n. 8, settembre 2009 L’intervista

Noi e l’Africa

Intervista a Padre Giuseppe Filippi, comboniano di Baselga del Bondone, nuovo vescovo di Kotido (Uganda).

Giuseppe Filippi

Padre Giuseppe Filippi, comboniano, 64 anni compiuti a marzo, vive in Africa dal 1975, eppure quando passeggia per le strade del suo paese, Baselga del Bondone, ogni pochi minuti si interrompe a salutare qualcuno, chiamandolo per nome. Si vede subito che i tanti anni africani non gli hanno tolto il legame col Trentino e con quanto di meglio questa terra sa esprimere: concretezza, semplicità, lucidità di sguardo e di azione. Lo scorso agosto, mentre era in Italia da qualche settimana, Padre Filippi è stato nominato vescovo di Kotido, una piccola diocesi nel nord est dell’Uganda, un territorio povero e arretrato. Una nomina giunta inaspettata, anche se la diocesi in questione mancava da due anni di una guida.

Padre Giuseppe, lei tra poco rientra in Uganda non più da missionario ma da vescovo. Cosa cambierà nella sua vita?

Cambierà tutto. Io ero Provinciale dei Comboniani in Uganda (il direttore dell’ordine, n.d.r.), mi occupavo di tutti i missionari, dovevo seguirli, motivarli, conoscere le problematiche di tutta la nazione e quelle dell’Istituto in generale. Inoltre viaggiavo molto per vedere le diverse situazioni, incontrarmi e scambiare idee con gli omologhi delle altre nazioni africane. Adesso dovrò occuparmi capillarmente di un territorio circoscritto.

Lei è un profondo conoscitore del continente nero e delle sue problematiche. Che effetto può avere, tra i diretti interessati, la recente politica dei respingimenti varata dall’attuale governo italiano?

Credo sia ininfluente, le persone non si fermano con i proclami e continueranno ad arrivare. E non è vero, se non in minima parte, che chi arriva qui arriva per sfuggire alle persecuzioni. La realtà è che noi sappiamo poco del perché queste persone partono, che cosa cercano, quali sono le loro speranze e i loro sogni. È invece proprio da qui che dovremmo partire.

L’elezione di Barak Obama alla Casa Bianca potrà avere qualche effetto positivo anche per l’Africa?

Obama è un nero e può dire ai neri ciò che i bianchi non possono dire. Durante la sua recente visita in Ghana è stato chiaro: “You can”, “Potete”, il vostro futuro è nelle vostre mani, voi siete i protagonisti della vostra storia. Un discorso così non avrebbe mai potuto farlo un bianco, non sarebbe stato accettato.

La cooperazione è in Africa da circa cinquant’anni, la Chiesa Cattolica da molto prima. Eppure la situazione degli africani continua a peggiorare. Per questo da tempo chi opera nella cooperazione si sta chiedendo dove sia l’errore. Se lo chiedono anche i missionari?

Certo, ma il problema, per i missionari in particolare, è che si opera con le persone. Mi spiego: se un macchinario si guasta, si cercano le cause del problema e lo si ripara, oppure lo si sostituisce. Con le persone il percorso non è così lineare e non si è mai certi del risultato. La persona fa scelte libere e quindi può accogliere o rigettare il Vangelo e qualsiasi altra proposta. Niente si può imporre. Bisogna sforzarsi di conoscere e comprendere le situazioni, riflettere a fondo, discutere e far incontrare e parlare. Ma è un lavoro lungo, si gettano dei semi che forse germoglieranno tra anni, forse tra decenni.

Si gettano dei semi, ha detto. Non è anche questa una forma di colonizzazione? Noi pensiamo di sapere cosa è bene per loro e cerchiamo di imporglielo.

Lo è se non si ascolta, se l’ascolto è superficiale e strumentale, cioè se serve a legittimare l’idea preconcetta che ci siamo fatti della situazione. Ma se ci sforziamo di recepire lo sguardo altrui, se entriamo davvero in dialogo e siamo disponibili a rivedere le nostre posizioni, allora si sta lavorando insieme.

Se il compito del missionario è quello di evangelizzare, non le pare che oggi ci sarebbe più da fare nel primo che nel terzo mondo?

Sì, è così, ma la società qui non è ancora pronta, prima deve scendere ancora un po’ più in basso. Quando la gente sta troppo bene non si preoccupa dello spirito e tutti gli sforzi sono tesi ad ottenere di più, a diventare ancora più ricchi. Non importa se questa ricchezza porta solo una parvenza di benessere e se molti, per procurarsela, rubano o imbrogliano. L’importante è arrivare allo scopo e arrivarci in fretta.

Non ha delle colpe anche la Chiesa in questo? In fondo i cattolici sanno che possono sbagliare, tanto poi ci sarà qualcuno che li perdona.

Se usato in questo modo il perdono è una truffa. La confessione e il concetto di perdono servono a dare una possibilità in più all’individuo. So che ho sbagliato, ma non sono finito come persona, ho la possibilità di ricominciare. Non posso usare il perdono a mio piacimento e soprattutto a priori, per giustificare ogni nefandezza.

Qual è oggi la condizione della donna, in Africa?

Bisogna distinguere due livelli: quello tribale e l’altro, dello stato moderno che si ispira ai modelli occidentali. Dove la tradizione tribale è ancora molto forte non è cambiato nulla, la donna è sottomessa e vive spesso in condizione molto difficile, a meno che non riesca ad affrancarsi uscendo dal suo ristretto mondo, studiando e diventando consapevole dei suoi diritti. A livello di società progredita si stanno facendo invece passi da gigante: in molti stati si sono approvate leggi per arrivare ad una quota del 50% di donne in parlamento e se la donna ha studiato e sa muoversi ha più possibilità che qui.

Cosa manca di più all’Africa, oggi?

La democrazia. Per tradizione in Africa non si critica il capo, che quindi può fare tutto quel che vuole e non accetta nessun controllo. Ci sono innumerevoli esempi di potenti, anche di capi di stato, che promettono giustizia e uguaglianza prima delle elezioni e, una volta al potere, si contornano di gente della propria tribù, in modo da assicurarsi fedeltà assoluta e potere a vita.

Uno dei tanti effetti della crisi è che ci interessiamo poco non solo dei nostri simili, ma anche dell’ambiente e della sua salvaguardia. L’Africa, dove la natura è sempre prepotentemente presente, può insegnarci a ritrovare una corretta dimensione dell’umano?

Non credo. In Africa si sta distruggendo a più non posso e quasi nessuno se ne preoccupa. La natura e l’ambiente devono servire alla gente e quindi vengono sempre sfruttati, in maniera a volte distruttiva. Penso che su questo versante non ci sia molto da imparare.

L’Africa non interessa più, tranne che ai trafficanti di armi, alle multinazionali e agli affaristi che sanno quanto quel continente sia ricco di petrolio, minerali rari, pietre preziose e di molto altro ancora. Cosa possiamo dire per invogliare le persone qualunque ad occuparsi di Africa e di africani anche in assenza di tragedie?

L’Africa ce l’abbiamo sotto gli occhi quotidianamente: sono i tanti immigrati che si aggirano per le nostre strade e di cui non sappiamo quasi nulla. Penso che possiamo suggerire ai nostri concittadini di interessarsi degli africani nostri vicini di casa, cominciare da loro è un buon punto di partenza.

Un comboniano che ha sempre lavorato in prima linea nominato vescovo di una diocesi in Africa: che segnale è?

Non so se sia un segnale, ma guardandoci attorno è facile notare che alcuni nuovi vescovi provengono da congregazioni religiose internazionali e locali. Questo mi sembra positivo, significa che la Chiesa nomina i suoi pastori con più libertà e ha maggiore possibilità di scelta. Un vescovo proveniente da un istituto missionario ha ragione di essere solo se la diocesi è veramente terra di missione e quindi ancora da sviluppare e consolidare.

Terra di missione Kotido lo è certamente: ci chiediamo che peso potranno avere in quel luogo le idee di Padre Filippi, idee spesso originali e non allineate a quelle ufficiali della Chiesa di Roma.

Un dubbio: perché proprio lui, e proprio adesso, nominato vescovo di una diocesi così defilata?