Storici della lingua al lavoro
Parole e parolacce in campagna elettorale.
E’ uscito in questi giorni dai tipi dell’Accademia della Crusca il volume "L’italiano al voto", a cura di Roberto Vetrugno, Cristina De Santis, Chiara Panzieri, Federico Della Corte. L’iniziativa partiva dalla cattedra di Storia della lingua italiana di Pavia (prof. Angelo Stella), con la collaborazione della Crusca e dell’Osservatorio Linguistico dell’Italiano Contemporaneo di Bologna; vi hanno aderito storici della lingua di Bologna, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Pavia, Roma "La Sapienza", Siena e Trento.
Ma non si pensi a proiezioni demoscopiche o a sondaggi d’opinione: la campagna elettorale di cui nel libro si dà un’analisi linguistica non è quella appena conclusa, ma la precedente, del 2006, ben più interessante dell’attuale per i toni bellici che assunse, l’intensa drammaticità, l’estenuante durata. Manifesti elettorali, sfide mediatiche, battaglie giornalistiche, interventi in radio, in televisione e in web (compreso il blog di Grillo) vengono passati al microscopio, con un’attenzione particolare all’efficacia delle diverse forme della comunicazione politica e alla stilizzazione delle differenze ideologiche che si polarizzarono in modi opposti di presentarsi e di interagire con l’elettorato.
Si spense definitivamente una tradizione di decoro istituzionale, di doppipetti depositari di una lingua politica astrusa nelle sue alchimie (il "politichese"), un po’ intimiditi dagli intervistatori; la discesa in campo di Berlusconi e la crisi dei partiti avevano già rivoluzionato il quadro politico, imponendo modi di espressione immediati, populisti, vicini al parlato comune, meglio se trascurato. Nella campagna del 2006 strategie pubblicitarie promossero la visibilità ad ogni costo, anche con il ricorso al turpiloquio e all’aggressione verbale dell’avversario; dal gran rumore del g(l)ossip non ci furono risparmiati i beceri coglione, culattoni, porcata, caccola, cesso, culo, fottere, cazzeggiare, incazzarsi, rompersi le palle, farsi un mazzo tanto, metterla in quel posto, far pipì, col cavolo, e anche altri vivaci regionalismi spesso di carattere gergale (frappe, scarparo, impapocchiare, scassamento di minchia, andare a ramengo / a schifìo / in mona, pirla, cacchio, pistola, bamba, minchione, bischero, pischello, crapa, ghello, palanca, lumbard). Li usarono i giornalisti, in maniera provocatoria soprattutto quelli di Libero, della Padania, del Giornale e persino i collaboratori stilisticamente sempre ricercati del Foglio; li usarono anche, per la prima volta in questa forma e in questa quantità, i leader politici, suscitando scandalo e stupore, ma certo molta attenzione.
Da sinistra si proponeva la "questione morale" e la "diversità etica", in appoggio ad un candidato che si presentava come "il Professore" e parlava di portare "la serietà al governo".
Da destra si rispondeva con scherno, declinando la mortadella prodiana in una varietà di forme lessicali insieme fantasiosa e ossessiva (mortadelliano, mortadellato, mortadellizzare, inmortadellarsi, smortadellarsi). "Ormai l’avevamo visto dire parole da osteria conservando la sua mascherona da mortadella", scriveva Farina su Libero, aggiungendo: "Era una vita che ce la menavano: Prodi sì che ha stile"; e Feltri rincarava: "A Prodi e al suo codazzo di sfigati non affiderei nemmeno il cane per i suoi bisognini".
Oppure si riduceva il leader degli avversari ad un personaggio dei fumetti, la caricatura del ciccione: "Nella fattoria di nonna Papera, c’era un personaggio che non ne azzeccava mai una. Era Ciccio, il papero grasso. Per me, gran lettore di Topolino, era Ciccio Pasticcio. Romano Prodi mi ricorda quel papero lì. Lui vorrebbe fare le cose per bene, ma proprio non ce la fa: due giuste di fila non gli vengono" (Paragone sul Giornale). O ad una controfigura di Pinocchio: "Come Pinocchio scalcia e piange: non vuole la medicina, non vuole le regole, non vuole la conferenza di Berlusconi, non vuole il duello e neanche la sciarpa di lana perché dice che lo soffoca" (Guzzanti sul Giornale).
Ai toni intellettuali, preoccupati e austeri dei comunistoidi si opponeva la goliardia del chi se ne frega, di chi li accusava di essere ballisti professionali ("Il nostro guaio è che non riusciamo a dire balle", dichiarava Farina) e, pur mostrando di menare a destra e a manca ("Berlusconi sarà quel che sarà, un gigione, un vanitoso, un pirla", scriveva Feltri), ammirava la trivialità: "Non so se chi non è lombardo capisce (scusate, noi che siamo nati a Nord di Milano, ce la tiriamo un po’), ma il suo vocabolario [di Umberto Bossi] è fisico, meccanico" (Farina).
Una delle parole di punta del linguaggio di Libero, coglioni, riferito all’elettorato di centrosinistra, passò direttamente da questo giornalismo a Berlusconi in un discorso cruciale di fine campagna elettorale, alla Confcommercio, che ebbe, grazie alla parola, inattesa in bocca a un politico, una risonanza enorme.
Fu però la televisione il principale (e non inerte) contenitore di questi messaggi, la scena dove esibire i personaggi politici, impegnati a dimostrarsi bravi comunicatori, ma, all’occorrenza, duellanti pugnaci e spregiudicati, irrispettosi del turno di parola dell’antagonista. La spettacolarizzazione della politica si rivolse al grande pubblico mediatico, riducendo il contenuto argomentativo del discorso e lasciando prevalere l’enfasi, le ripetizioni, le serie di parole opache e di numeri sparati a raffica, la trasgressione spontaneistica delle regole della "buona lingua", i gesti clamorosi. Ogni incontro mediatico di politici alimentò metafore belliche (guerra civile, paese spaccato) o, per eufemismo, sportive, soprattutto calcistiche (partita, partitissima, match, big-match, derbissimo, incontro di ritorno, partita tattica, contropiede, goleada, supplementari, fallo a gamba tesa, colpi bassi, tridente, punta, tifoserie, tifo da stadio). Metafore calcistiche erano, del resto, da sempre nel lessico politico di Forza Italia, il partito degli azzurri.
Il libro della Crusca ci documenta tendenze, comportamenti, che vengono studiati differenziando i canali comunicativi, le parti politiche, i tempi della campagna (per l’effetto di crescendo). Ma davvero nuova è la valutazione degli aspetti regionali. E qui l’analisi condotta sul materiale trentino da due mie giovani e brave allieve, Laura Da Rugna e Raffaella Zini, offre una sorpresa.
Mentre la nazione si accalorava nella competizione e indulgeva al vituperio e all’oscenità, il Trentino sviluppava una particolare ripugnanza, insieme etica e stilistica, per la volgarità. Nei talk-show e sui giornali regionali la campagna veniva giudicata anomala, brutta, la più brutta della storia, perché pesante, disordinata, sguaiata, avvelenata, una delle più cattive e isteriche di questi sessant’anni di repubblica. Le parole diffuse dai politici si definivano parolacce, parole pesanti; si riportavano con imbarazzo, ben virgolettate, e si esorcizzavano smorzandole in un contesto volutamente ironico, dove si faceva pesare il buon senso di chi, come i trentini, non si lascia trascinare dalle apparenze ("L’imbarazzo si taglia a fette anche nel centrodestra. Fini si avventura in una spericolata valutazione politica della parola ‘coglioni’", leggiamo sul Trentino).
Non piacque la drammatica mediatizzazione, anzi si parlò di effetti deleteri o di noia o di mal di pancia. Candidati trentini ed elettori vissero con disagio gli effetti della legge elettorale sul rapporto di fiducia personale; la campagna elettorale era, per la prima volta, virtuale, di plastica. Si poteva al più sorridere dei protagonisti nazionali ("Napoleone Silvio Berlusconi", la mortadella "in Trentino si chiama bondola"), lamentarsi della lunga telenovela e del clima da stadio sostenuto da opposte tifoserie. I lettori mandavano ai giornali lettere disilluse e sarcastiche, alcuni anche filastrocche sui politici; si offesero particolarmente sentendosi chiamare coglioni: "come si permette questo grande maleducato", "non so se son propri na coiòna" (lettere all’Adige).
Nei talk-show i politici locali, con la sola eccezione, in genere, della Lega Nord, si adeguarono al sentimento della gente e usarono toni pacati e professionali. Anche un politico della Lega, Sergio Divina, sentì una volta il bisogno di un’attenuazione: "Calderoli l’ha definita una ... poteva dir porcheria non porcata".
I giornalisti, riferendo commenti e retroscena, non dimenticarono di unire alla inevitabile metafora calcistica e a qualche spunto quaresimale suggerito dal periodo, immagini di vita alpina e ammiccamenti lessicali ai dialettofoni per lo più attribuendoli ai politici in conversazioni informali: do ciàcere, formài frito, lèto bonòra, l’è tre mesi che no vardi calcio, la magnadora l’è alta, non fermarci a queste migole, va a pascolar!
La campagna trentina, una via crucis per molti, si chiudeva con un sospiro di sollievo, riferendo le parole di un’elettrice all’uscita dal seggio: "Finalmente l’è finida". Si era lontani dall’immaginare quanto presto sarebbe ricominciata.