“Into the Wild”
Di Sean Penn un film sull'abbandono della civiltà per il ritorno alla (supposta) purezza della natura incontaminata. Ma Penn, pur ottimo attore e onesto regista, non riesce a non far rimpiangere il Werner Herzog di “Grizzly Man" che con ben altra maturità e spessore aveva trattato lo stesso tema.
Il tema, classico, è quello dell’abbandono di una vita già indirizzata, borghese, consumista per andare in cerca di qualcosa d’altro: avventura, natura e interezza di vita. Che il tema sia classico lo sa anche il protagonista di "Into the Wild", tutto dedito a leggere Thoreau, Kerouac, Tolstoj, London, teorici del distacco individuale dai modelli esistenziali dominanti. Il regista Sean Penn ha colto la sfida posta da un libro di Jon Krakauer basato sulla vera storia di Christopher "Supertramp" McCandless. Per il giovane fuggitivo di "Into the Wild", la ricerca di lontananza diventa prima un viaggio nelle strade e nel paesaggio americano e poi un’anacronistica sfida alla natura, con un eremitaggio in Alaska e il tentativo di sopravvivere da autarchico in quelle condizioni estreme.
Per raccontare tutto ciò, Penn fa uso abbondante di stereotipi: la città come giungla d’asfalto, i ritmi frenetici del capitalismo contrapposti alle logiche degli animali e degli alberi, la natura come libertà, il rischio come apertura a orizzonti nuovi. Anche a livello di contenuto, si incontrano prevedibilmente lungo la strada degli hippy, le rapide di un fiume, orsi, un vecchio al capolinea della vita, coppie in crisi, poliziotti, danesi in topless.
Per seguire il suo protagonista, Penn mette mano a tutta quella serie di risorse che fanno road-movie o cinema di paesaggio: movimenti di macchina, dolly, elicotteri... Sean Penn – bravissimo attore, uomo interessante e impegnato – difetta però in talento visivo. E si attacca di conseguenza a fattori che esternamente e oggettivamente sono estetici per dare una patina estetica anche al suo film. I canyon e le foreste son molto belli, non c’è dubbio. Per fare cinema, tuttavia, bisognerebbe avere anche la forza di convogliare la potenza di quel che si riprende attraverso uno sguardo che sappia essere filtro e guida. L’impatto visivo, nel film di Penn, c’è: ma è merito dello scenario, e poco del regista.
Vengono in mente, per contrapposizione, almeno un paio di altri grandi registi della natura: ad esempio Terrence Malick, che chissà che cosa avrebbe tirato fuori da un soggetto così. Ma, soprattutto, l’inevitabile termine di paragone è Werner Herzog e il suo “Grizzly Man", grandioso documentario su un amante degli orsi che si ritira a vivere in Alaska. Sia il protagonista di Herzog che il protagonista di Penn sono dei cittadini, uomini di città ingenui amanti della natura – o, meglio, di una versione idealizzata e cartolinesca di natura.
Di entrambi, non si capisce se l’avventura li affascini perché è fine a se stessa o perché ambiscono a qualcosa da ottenere dopo, una volta abbandonati i boschi (forse la fama attraverso dei video, o un libro di memorie). Entrambi sono vittime di percorsi esistenziali difficili – padri violenti, abbandoni, famiglie al disastro.
I protagonisti si somigliano molto. Le differenze sono che Sean Penn non è Werner Herzog. E non è solo nell’idea di cinema, nella forza dell’ingegno che tiene incollata una storia, nel talento visivo che Penn è inferiore a Herzog (sarebbe d’altra parte ingiusto farne una colpa all’americano). La differenza basilare, in termini narrativi, è che Sean Penn sposa il punto di vista del protagonista. Subisce il fascino tutto sommato superficiale dell’avventura. Sceglie di forzare lo spettatore all’identificazione, come se la vicenda del neo-vagabondo contenesse delle indicazioni di vita utili a tutti noi. Può anche darsi che sia così, ogni narrazione contiene, volendo, elementi per riflettere su noi stessi. Ma è evidente (e un po’ fastidioso) il pleonasmo di una voce narrante che dà consigli di vita cui si somma un’altra voce, quella del regista, che ammicca e ne sottolinea con cenni del capo gli spunti e i messaggi.
Andiamo a vedere, per contrasto, cosa fa Herzog davanti al suo Grizzly Man. Herzog non lo rimprovera, non gli dice che è un coglioncello di città: lo sta a guardare sedendosi a bordo di sedia, completamente sbilanciato in avanti, attentissimo a quel che succede, entrando in un rapporto di profonda empatia. Ma la sua posizione rimane posata, razionale, alla fin fine distante. Herzog finisce per mostrare un’estraneità di fondo davanti a molte delle scelte dell’uomo grizzly. E rende scoperta la facilità delle voglie esistenziali e la debolezza delle giustificazioni filosofiche addotte dal protagonista.
Quel che a Penn sembra libertà, per Herzog è vacua utopia dai tratti piccolo-borghesi.
In soldoni: il tedesco dà l’impressione di saperla molto ma molto più lunga. Herzog toglie maschere, è spiazzante, scava al di sotto della superficie, porta alla luce temi e contenuti che non sono i soliti cliché legati all’isolamento o al viaggio ma imbastiscono una riflessione inedita, complessa, che perseguita e affascina per molto tempo lo spettatore dopo il termine della visione. Dalla storia di Penn, invece, riusciamo alla fine dei conti a cavar fuori davvero troppo poco.