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L’enciclica vista da un laico

Luciano Bortolotti

Ho letto l’enciclica del papa sulla speranza e vorrei esprimere qui qualche riflessione. A differenza dei suoi fedeli, che se la devono sorbire senza fiatare (e forse per questo non la leggono), io, che sono laico, credo di avere il diritto di- intervenire, perché il santo padre ha pesantemente invaso il campo della storia e della cultura , con giudizi di condanna dell’illuminismo come padre della rivoluzione francese, di Marx come cattivo profeta, della scienza che non si prostri come ancella, dell’ateismo, seme maligno di grandi crudeltà e violazioni della giustizia.

Avesse fatto un discorso tutto religioso, come è capitato a tanti suoi predecessori ammirevoli, non avrei mosso verbo. La ricerca teologica, come dice la parola, si aggira attorno all’idea di Dio e del suo operare, materia di cui non ho alcuna conoscenza. Ma evidentemente la sua non è una meditazione per esercizi spirituali, sì bene una sfida alla modernità.

II tema meritava maggiore ponderatezza, e la tesi della felicità ultraterrena sarebbe potuta essere seducente se non si avvertisse quasi in ogni pagina la superbia dell’infallibilità e la voglia di litigare con tutti.

Per nostra fortuna la scienza cammina proprio perché e in quanto non è eterodiretta, la liberazione dell’umanità dall’indigenza e dalla sofferenza, pur nel suo cammino tortuoso, è inarrestabile, il nostro mondo non è il migliore dei mondi-possibili, ma è di molto migliorato dalle caverne ad oggi e c’è per tutti gli uomini di buona volontà l’idea di migliorarlo ancora. A noi, esclusi dalla città di Dio, basta questa speranza collettiva e ad essa è nobile appendere il nostro fine. Che poi incomba la catastrofe, questa è più materia di fede che di ragione; e pur fosse vero, ciò nulla toglie al bene che con inesauribile operosità l’ingegno umano fino ad oggi si è procurato, vincendo di volta in volta i freni e i divieti che sempre le religioni gli hanno teso. Dipendesse da loro, saremmo ancora qui a guardare il sole che trottola attorno alla terra e magari poi anche si blocca al grido guerriero di un unto del Signore.

Quanto al destino individuale, prendiamo atto che l’eternità del Paradiso è finalmente ridotta a "qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia". Se fosse questione di un momento, quasi ci si potrebbe pensare, se non che poi prepotente ritorna in campo la resurrezione dei corpi con tutti gli inciampi del dove del come e del perché.

Meglio affidarci ad un pensiero di Giacomo Leopardi, che di speranze e di felicità se ne intendeva molto di più di questo arcigno fustigatore della ragione che ragiona: "Le speranze che dà all’uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all’animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desideri(...). La promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma e intiera bensì, ma che l’uomo non può comprendere né immaginare né pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmeno per approssimazione; (...) una tal promessa, dico, e una tale aspettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desideri, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal quale egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di un’esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere". (Zibaldone, 3497).