Pellicole
Il resoconto visivo di un grande archivio in costruzione.
Quattro serate per una sessantina di filmati provenienti dai depositi delle istituzioni culturali o, nella maggioranza dei casi, da soffitte e armadi di famiglia. L’itinerario proposto dalla rassegna “Pellicole”, che si svolgerà a Rovereto il 19, 22, 26 e 28 novembre (auditorium Melotti, ore 20.45) vuol mostrare le potenzialità di una “banca della memoria” in costruzione. L’architettura del progetto “Archivi 2000” e un primo bilancio della sua attuazione meriterebbero spazio, in una rubrica come questa. Le considerazioni metodologiche, però, sono poco propizie alla seduzione e noi confessiamo onestamente il proposito di allettare i lettori a vedere queste immagini sottratte alla dispersione e in buona parte ignote al pubblico.
Le prime due serate del programma sono dedicate al lavoro. Si comincia da un film che porta la data del 1928, l’anno nel quale fu inaugurato il grande impianto idrolettrico del Ponale, coraggiosa impresa dei comuni di Rovereto e di Riva. Avviata nel primo dopoguerra nel clima della ricostruzione, conclusa in pieno fascismo, la realizzazione dell’opera è emblematica della grandezza e della sconfitta di un progetto municipalistico. Nelle immagini dell’inaugurazione vediamo il suo principale ideatore, il podestà roveretano Defrancesco, accanto a Gabriele D’Annunzio, chiamato come prestigioso testimonial dell’evento, probabilmente grazie ai buoni uffici di Giancarlo Maroni, il rivano architetto del Vittoriale.
Questa realizzazione si può considerare il canto del cigno di un ambizioso disegno di autonomia locale, tutt’altra cosa che un’opera di regime. Il compito di documentarla fu affidato a Silvio Pozzini, fotografo a Riva: a lui si deve - apprendiamo dalle carte dell’archivio Ponale conservato presso la Biblioteca di Rovereto - la rappresentazione di un paesaggio trasformato dall’ardimento ingegneristico e dalle fatiche del lavoro operaio colto in una sua dimensione eroica.
Di venticinque anni dopo è un altro dei pezzi forti della rassegna, “Il fiume si nasconde”, proiettato nella seconda serata. Prodotto dalla società elettrica costruttrice, la S.E.A., è dedicato all’apertura della galleria che incanala l’acqua dell’Adige verso la centrale idroelettrica di Ala, inaugurata nel maggio 1953. Una delle più grandi gallerie d’Europa, si legge nelle pubblicazioni di allora, lunga oltre 9 km. E avente una sezione di m.9,45 per 8,50. “Lo scavo complessivo di roccia, che è stato necessario per quest’opera, supera il milione di metri cubi; furono impiegate un milione e 400.000 giornate lavorative; mille tonnellate di esplosivo; mille tonnellate di ferro; 270.000 quintali di cemento”.
Apprendiamo dalle cronache, peraltro laconiche in proposito, che a questa contabilità manca un dato drammatico, quello dei 21 (ventuno, sì) operai caduti nel corso della costruzione. Il film non ne parla, pur essendo attento, anche in questo caso, a valorizzare l’apporto umano all’impresa, in un clima figurativo da cinema realista. Ne fu autore il siciliano Basilio Franchina, un protagonista minore ma non anonimo della cultura cinematografica italiana del secondo dopoguerra, collaboratore di registi come Rossellini e De Santis, poi regista in proprio e perfino attore, in età avanzata, in un film di Cassavetes.
Più artigianale, ma dignitoso anche sul piano tecnico, il documentario su un’altra imponentissima opera pubblica, la Galleria Adige-Garda, ideata in epoca fascista ma realizzata solo alla fine degli anni ’50. Produttore e autore l’industriale Bruno Bini, nelle cui Officine si realizzarono le strutture metalliche. Questa è la ragione dell’inserto, molto suggestivo, di una parte girata nella fabbrica sul lungo Leno: un luogo che appare quasi arcaico, nella nudità degli spazi e nella dimensione artigiana della lavorazione, e insieme moderno quanto basta per reggere una commessa molto impegnativa. Un anteriore filmato di Bini sulla sua azienda, uno di Talieno Manfrini sulla Cofler, un altro dello stesso autore sulla produzione della sigaretta alla Manifattura Tabacchi (“La regina di tutte le tasche”): ovunque è dichiarato in modo esplicito un punto di vista “padronale”, con punte encomiastiche perfino impudenti nei confronti dell’amministratore della Cofler, Rocchetti. E tuttavia, grazie alla distanza critica che il tempo consente, possiamo apprezzare la ricchezza di spunti che ci vengono offerti sull’organizzazione del lavoro, sul rapporto tra donne, uomini e macchine, sull’ideologia della fabbrica .
Manfrini (poliedrico insegnante, giornalista e scrittore per il teatro) si provò negli anni ’50 a dar vita a un filone di cinema locale, non solo documentaristico, in sodalizio con Adriano Zancanella e la Dolomiti Film da questi costituita. I lavori suoi che si vedranno in rassegna hanno qualche eccesso di leziosità che può risultare stucchevole. Ma le immagini incorporate in queste sceneggiature hanno spesso un interesse che va oltre l’involucro. Analogo discorso vale per “Broche e monti” di Bini, un improbabile esperimento narrativo ambientato in un’arcadia montanina tanto kitsch da risultare comica. Ma basterebbe l’inserto sulla fabbricazione artigianale delle broche per scarponi in Val di Ledro a farne un documento prezioso.
Il fondo costituito intorno ai ma-teriali dell’industriale cinefilo presso il Museo della Guerra fornisce alla rassegna (e all’archivio virtuale in formazione) molto altro, tanto da motivare un’intera serata, la seconda, dedicata ad personam. Vela, sci, soccorso alpino: ci si proietta così verso i temi della terza serata, che accanto ad alcuni frammenti sull’infanzia allinea immagini della scuola e dello sport. Prevalgono qui pellicole non strutturate, riconducibili ad un uso molto privato, e socialmente borghese, della macchina da presa. Ma anche alla sua valorizzazione in ambienti associativi, si tratti della SAT, della rivana Fraglia della Vela o del roveretano GAR, promotore di un’intensa attività aeromodellistica.
La quarta serata ha per titolo “Riti di pace immagini di guerra”. Si apre con un film più noto degli altri, anche perché viene proiettato a ciclo continuo nella nuova struttura di accoglienza della Campana dei Caduti.
Il film è dedicato ai momenti più rappresentativi della storia del “monumento a voce viva” inventato da don Rossaro: dalla “consacrazione”, il 24 maggio 1925, madrina la regina madre Margherita di Savoia, all’inaugurazione, il 4 ottobre dello stesso anno, alla presenza del re Vittorio Emanuele III. “Il Re dà il cenno… La Campana tra le lacrime di commozione e di gioia delle folle presenti, si scuote… si muove… squilla. Grande lancio di colombi, che mandati da l’Italia, tornano alle loro Città. La Campana suona… ed il suono accompagna il Re al grande Ossario di Castel Dante, ove migliaia e migliaia di Eroi dormono il sonno glorioso. Splendide ed emozionanti visioni del Cimitero di guerra a Castel Dante, il Redipuglia trentino”.
Sono brani dell’ampia descrizione data alle stampe dall’inesauribile sacerdote demiurgo. Da un confronto con le immagini pervenuteci, si avverte che una parte della pellicola è andata persa (a meno che quella conservata non sia una fase intermedia rispetto al prodotto finale). Il film (anzi “la film”, nell’uso di allora) ebbe una discreta circolazione nazionale, su iniziativa di una società di privati che se ne era assunta la gestione propagandistica. Regista, uno dei pionieri del cinema europeo, Luca Comerio, che alle riprese roveretane accosta alcune delle celebri immagini da lui girate durante la guerra sull’Adamello. Alla saga della Campana sono dedicati altri due filmati, uno più professionale di Zancanella (1961), uno amatoriale e molto vivo di Ennio Olivotto (1965).
Al tempo della seconda guerra mondiale e ai giorni (potremmo dire alle ore) della sua conclusione appartengono i brevi e folgoranti documenti girati da Gino Martini, ingegnere e impresario edile impegnato nella vita della città, direttore del Museo Civico dal 1944 al 1973, vicecommissario del Comune e poi vicesindaco tra il 1944 e il 1946. La processione del Corpus Domini del 1941, quella della Madonna Ausiliatrice dello stesso anno o del successivo, filmate su pellicola a colori, offrono fotogrammi di altissimo valore emblematico. Sfilano sotto i nostri occhi le associazioni cattoliche e le organizzazioni di regime, ciascuna con gli abiti da cerimonia di tradizioni antiche e recenti. L’esibizione di questa comunità organica nasconde artifici e contraddizioni, non va scambiata per la realtà, o meglio per tutta la realtà. Resta che queste sacre parate (come quelle civili raffigurate dalle fotografie di Decarli pubblicate in “Rovereto 1940-45”, con il vescovo Ferrari che saluta romanamente insieme al Prefetto e al Federale) non dovranno né potranno essere espunte da una iconografia che voglia tener desta la riflessione storica.
Nuove grandiose processioni in Vallarsa nel dopoguerra, a ringraziamento del ritorno dei reduci e della fine del conflitto. In mezzo, immagini potenti di Rovereto bombardata, degli americani che fanno il loro ingresso in città, delle ruspe al lavoro per bonificare l’area disastrata del ponte ferroviario, dei prigionieri che rientrano a piedi dal Nord.
Gli otto minuti di pellicola acquisiti dal Laboratorio di Storia negli archivi americani promettono qualche ulteriore sussulto di emozione.
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Tutte le serate prevedono l’accompagnamento al pianoforte di Francesca Aste, nell’ultima con una formazione di altri tre musicisti. Promuovono il progetto il Comune di Rovereto e le istituzioni culturali della città. Ha sostenuto una parte significativa degli oneri la Fondazione Cassa di Risparmio. Il coordinamento fa capo alla Biblioteca, con un particolare apporto scientifico e finanziario del Museo della Guerra.