Massimo Scolari: le visioni di un argonauta
Al Museo di Riva del Garda, personale di opere pittoriche, installazioni, mobili, all'insegna della contaminazione tra gli antichi archetipi e il contemporaneo.
“Controllare il destino della forma – dice Massimo Scolari – è cosa sempre concessa alla pittura e alla scultura, quasi mai alla costruzione: per questo la professione del costruttore è uscita dall’orizzonte dei miei eventi molto presto". La mostra che gli è dedicata al museo di Riva del Garda ( a cura di Giovanni Marzari, fino al 4 novembre) ci informa infatti su una singolare e raffinata tempra di pittore, ma ci dice anche quanta parte vi abbia l’interesse per l’architettura, come ideazione e come storia.
All’inizio (1967), quando ancora è studente al Politecnico di Milano con Aldo Rossi, vocazione pittorica e studio dell’architettura paiono andare ognuno per conto proprio: le figure grottesche dei dipinti di allora sembrano occuparsi di tutt’altro, più degli incubi del soggetto che dell’evidenza dell’oggetto. Ci vorrà qualche anno perché le due dimensioni si fecondino e l’immaginario di Scolari cominci a interagire coi suoi studi e saperi.
E’ lì che prende avvio il racconto tra archeologico e fantascientifico, la messa in scena di un mondo parallelo, in cui l’apparente nostalgia per gli archetipi architettonici delle antiche culture mediorientali e mediterranee è tenuta a bada da uno sguardo ironico e amante dell’enigma.
Se prendiamo un’immagine come quella intitolata "Lucifero" (1980-86) vi troviamo sintetizzati alcuni degli elementi fondanti del racconto visionario: in primo piano le mura e i frastagliati contrafforti di una città del deserto, priva di abitanti, dello stesso colore della catena di montagne alle sue spalle, e lì, nel cielo chiaro e uniforme, sospeso sopra tanta solitudine, un bipede con due enormi ali artificiali: il contrasto tra paesaggio costruito e naturale, tra la luce e l’avanzare delle ombre, la presenza aliena, tutto concorre ad una visione metafisica, inquietante, enigmatica.
Certe altre immagini comunicano un sentimento misto di stupore e di attesa di una cosmogonia ("Immobile attesa", 1996), altre volte, rileggendo a suo modo anche le lezioni di Savinio e di De Chirico, il sapore una profezia beffarda in cui restiamo incerti tra il senso di una distruzione e quello di una rinascita ("La fine della città", 1973). Un’ambiguità del resto ben rappresentata anche dallo sviluppo che avrà nella sua opera il tema dell’arca.
L’oggetto volante, privo di pilota, che incontriamo spesso nelle sue visioni, ha vari strati simbolici.: il sapore delle leonardesche "machinae" nate più per soddisfare l’immaginazione tecnologica che per essere davvero realizzate; il mito del volo (Icaro); la possibilità (non si spediscono anche oggi aerei spia senza pilota?) di un punto di vista insieme alto e preciso sulle cose e su un mondo inospitale. Quest’idea delle ali si materializzerà più avanti, nel 1991, nella grande installazione per la Biennale veneziana di architettura.
E’ evidente che chi cercasse negli acquerelli di Scolari una proposta per un’architettura da realizzare, andrebbe deluso. Il suo è un paesaggio e uno spazio tutto mentale, del quale si capisce anche meglio il risvolto di polemica culturale leggendo ciò che scrive l’autore nel commentare il proprio cosiddetto "Studio per le Terme elioterapiche sull’Atlantico" (1977): "Tutta la costruzione è stata concepita come un muto desiderio. Forme e funzioni si rincorrono instancabilmente come il corpo malato dei loro abitanti rincorre la salute". E il suo amico, il famoso architetto Manfredo Tafuri, non manca di rimproverargli questo atteggiamento "frustrante" (in un saggio del 1980 che compare nel bel catalogo Skira che include, tra gli altri, interventi di Daniele Del Giudice, Carlo Bertelli, Vittorio Gregotti, Franco Rella).
Di fatto, il racconto pittorico di Scolari, dietro il suadente connubio di precisione ed enigma, di memoria e immaginazione, di mito e ironia, sembra dire che ogni pretesa di ideare e realizzare il nuovo non possa che fondarsi sulla comprensione profonda della cultura, non solo architettonica ma anche mitica e simbolica, delle civiltà antiche. E’ l’idea di una perlustrazione del passato, di un viaggio misterioso continuamente alluso nella sua opera pittorica, di cui anche i titoli delle opere sono una traccia esplicita: "Inutile attesa", "La piramide malata", "Terremoto in alto", "Il ritorno dell’argonuata", "Archeologia artificiale", "Il pilota del labirinto"…
La mostra ci parla anche degli altri archetipi che hanno a lungo occupato l’immaginazione dell’artista, la Torre di Babele, gli ziggurat, che hanno prodotto altri racconti visionari e memorabili installazioni veneziane.
Ma non è del tutto vero che Scolari non costruisce: la sua passione per le antiche "machinae" in legno, fossero argani, ruote di mulini, navi o altro si manifesta anche in un ambito creativo al quale è dedicato uno spazio al primo piano del museo: quello dei mobili, dove ritroviamo, trasposto nella bellezza tattile del legno e nella precisione del dettaglio costruttivo, il particolare connubio scolariano tra antico e contemporaneo