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QT n. 5, 10 marzo 2007 Monitor

“Il Modo italiano”

Decisamente interessante al Mart di Rovereto la mostra sul design italiano, dall'Art nouveau alla contemporaneità: con approfondimenti come l'evoluzione del gusto, il rapporto con l'economia, il dialogo tra le varie arti...

Sebbene sorprendentemente sprovvisto ancora di uno specifico museo, il design italiano è stato nel corso del Novecento tra i più apprezzati ed imitati in Europa. Il Mart, che già in passato ha dimostrato interesse per le arti applicate dedicando alcune mostre alle ceramiche sovietiche, a Ettore Sottsass e al giapponese Isamu Noguchi, ha recentemente inaugurato una squisita mostra sul design italiano, affiancando mobili e oggetti d’arredamento a dipinti e sculture, per evidenziarne i legami formali. “Il Modo italiano” (fino al 3 giugno), ideato in collaborazione con due musei canadesi, va oltre le retoriche lodi della genialità del made in Italy, per soffermarsi sulle strette connessioni tra economia e design, sui mutamenti del gusto, sul dialogo tra le arti, sull’evoluzione-rivoluzione estetica degli oggetti d’uso.

Carlo Zen, Credenza (1902).

Il percorso, decisamente cronologico, si apre con le sperimentazioni decorative dell’Art nouveau, che in Italia sembra guardare più al mondo tedesco che a quello francese, comunque inserito in un gusto internazionale diffuso soprattutto grazie alle esposizioni universali e a riviste come l’inglese The Studio o l’italiana Emporium. Nelle prime sale, indubbiamente le più piacevoli per un pubblico non specialista, si possono ammirare gli eleganti vasi di Galileo Chini e Vittorio Zecchin, le affiches di Metlicovitz e e Hohenstein, i lavori in ferro battuto di Alessandro Mazzucotelli, i mobili con rilievi in bronzo di Ernesto Basile, quelli con intarsi in madreperla di Carlo Zen e quelli assolutamente unici, esotici nelle forme come nelle materie (dal rame all’intarsio, dall’ebano alla pergamena dipinta) di Carlo Bugatti, ebanista che per eccentricità ricorda la figura dell’architetto Gaudì. Numerose anche le opere di Adolfo Wildt, del quale sono esposte alcune delle celebri sculture, un disegno su pergamena (Wildt illustrò anche alcuni libri) e una acquasantiera impreziosita da tessere di mosaico.

Capitolo due, le rigorose linee del razionalismo. A iniziare dalla seconda stagione futurista, quella più geometrico-astratta, che vide attivi soprattutto la coppia Balla-Depero, firmatari del manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo” e straordinariamente aperti al campo delle arti applicate, come dimostrano i numerosi oggetti “reinventati”: paraventi e mobilia, capi d’abbigliamento e vassoi, senza dimenticare le sedie di Ivo Pannaggi e le ceramiche di Tullio s’Albisola, autore anche delle inusitate “litolatte”, libri futuristi dalle pagine metalliche. Nel campo del design puro e razionalista di questi anni, il cui sguardo fu in parte anticipato dalla Metafisica, sono esposti oggetti d’uso progettati da Carlo Scarpa, Giò Ponti, Marcello Piacentini, Piero Portaluppi, Luciano Baldessari, Giuseppe Terragni, Luigi Figini, Luigi Vietti, Franco Albini e dal vetraio muranese Napoleone Martinuzzi (sue le decine di oggetti in vetro prodotti per D’Annunzio e conservati al Vittoriale degli Italiani). Naturalmente questa sezione aperta all’astrattismo offre numerose opere di Bruno Munari (che di design si occupò anche a livello teorico): oggetti d’uso come portacenere, ma anche prodotti anti-funzionali come le “macchine inutili” o i giocosi “libri illeggibili”.

La razionalità si fuse nel dopoguerra con la praticità, grazie alla nuova cultura industriale che emerse dalla macerie del conflitto, seppur con un forte ritardo rispetto ad altri Paesi. Milano fu il centro di questo design dal minimo costo e dalla massima funzionalità, erede delle esperienze del Bauhaus; al contrario i designer romani, più comunicativi e antiretorci, proposero oggetti dal volto umano, cromaticamente coinvolgenti. In questa sezione compaiono alcuni prodotti che hanno fatto la storia del boom economico degli anni ‘50, dalla “Lettera 22” (la più nota delle macchine da scrivere della Olivetti, disegnata da Marcello Nizzoli), fino ai ciclomotori di massa, passando per lampade - su tutte quelle di Achille Castiglioni -, poltrone, radio, aspirapolveri, i primissimi televisori, posate, caffettiere e molto altro.

In basso a sinistra: Marcello Rizzoli, Olivetti Lettera 22 (1950).

Negli anni ‘70 nel campo del design ci si scostò radicalmente dal puro funzionalismo, e quindi dalla riconoscibilità dell’oggetto. La provocazione e il ludico promossi dal Radical Design si sostituirono così alla razionalità, come dimostrano i mobili e gli oggetti d’arredamento progettati da Ettore Sottsass, Studio 65, Archizoom, Enzo Mari, Joe Colombo, Gaetano Pesce, Marco Zanuso, Michele De Lucchi ed altri. Naturalmente per motivi di spazio abbiamo citato quasi esclusivamente oggetti di design. Ma, tra le 380 opere esposte, numerose e pregevoli sono anche le opere d’arte, tutte di artisti di primissimo piano, tra i quali ricordiamo per lo meno Medardo Rosso, Previati, Carrà, Sironi, Savinio, Licini, Capogrossi, Fontana, Melotti, Manzoni, Rotella, Paolini, Kounellis, Boetti, Ontani, De Maria.