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QT n. 20, 25 novembre 2006 Monitor

“Flags of our fathers”

Padri e bandiere, elementi stantii da retorica patriottarda. E invece Clint Eastwood, rinunciando a imporre il suo punto di vista ma restando aderente ai fatti, riesce a fare un film intenso e toccante.

Il titolo parla di bandiere e parla di padri. Un film di guerra che dichiara esplicitamente di voler affrontare i grandi temi si va a muovere su un ghiaccio sottilissimo. Un gesto sbagliato, una perdita d’equilibrio, e ci si trova a sprofondare nella più triste retorica patriottarda e familista. Fortunatamente “Flags of our fathers” ha una consapevolezza estrema del terreno su cui si muove. E trova di conseguenza gli strumenti registici più adatti a questa operazione delicata: la narrazione riesce a restare asciutta, a far correre i fatti lasciando percepire che le prospettive da cui guardarli sono infinite. Tentare di imporre il proprio punto di vista, qualsiasi esso sia, non è il servizio più utile che si possa fare alla storia, quando si ha la certezza dell’inesauribile forza già propria al racconto. Clint Eastwood si dimostra così un grande regista. Porta avanti un ragionamento privo di enfasi, si concentra sugli eventi, ha la coscienza di dover rimanere stretto sulla vicenda, senza allontanarsene per dare un giudizio. Lo sguardo di Eastwood non è cinico, né spettacolare, né sentimentale. Lo si immagina dietro la macchina da presa con la fronte corrucciata e il volto senza sorriso. Per lui quella storia non va trattata come un vulcano che produce zampilli, ma come uno di quelli che fanno colare una lava lenta, corposa, spessa, che cela il magma vivo sotto una crosta di cenere.

Sull’isola di Iwo Jima si combatte una battaglia decisiva durante la Seconda guerra mondiale. Sei soldati piantano una bandiera su un cocuzzolo. Anzi, ne piantano due, con una seconda bandiera che sostituisce la prima a distanza di pochi minuti. Quando viene alzata, un fotografo preme l’otturatore nel momento esatto, nell’attimo in cui tutte le condizioni – la luce, lo sfondo, la posa dei soldati… – sono perfette per fare di quell’immagine un simbolo. Dei sei soldati che sollevano la bandiera, tre sopravvivono alla battaglia. Vengono presto riportati in patria e fatti salire come testimonial sui palchi di mezza America, perché la guerra ha bisogno di nuovi finanziamenti.

I tre soldati vengono presentati come “gli eroi di Iwo Jima”. Nessuno di loro si riconosce tuttavia nella definizione. La retorica sull’eroismo viene rifiutata da chi è oggetto di questo culto abbozzato. Ma gli interessi nazionali passano al di sopra di quelli individuali, proprio nel momento in cui, in una fotografia, tutta una nazione si personifica in sei singoli individui. La conseguenza è che i soldati vengono espropriati della loro vita, requisita per superiori interessi di guerra. I protagonisti ne sono consapevoli, e tutti e tre accettano il sacrificio, per il bene della patria. Per due di loro è una temporanea parentesi, che li restituirà presto a vite mediocri dove il ricordo di presunti tempi di gloria non fa compagnia, né crea nostalgia. Se ne sente solo il peso, la distanza.

Per Ira Hayes, invece, non è una parentesi della vita, ma la sua fine. Ira Hayes è un nativo americano che risulta incapace di integrarsi in questa retorica e manifesta un rifiuto della messa in scena. Un rifiuto nemmeno razionale, ma antropologico. L’indiano capisce il senso dello stare in battaglia, e vi si adatta. Capisce anche il senso della propaganda, della finzione, della monumentalizzazione, ma non riesce ad adattarvisi. Si mette a bere. Viene prelevato dagli stadi e rispedito a combattere.

La sequenza in cui Ira Haynes sale sul treno per tornare in guerra è girata con una precisione da spartito musicale: il movimento del treno e quello, conseguente, della macchina da presa sono dotati di un ritmo che descrive con l’animo più giusto quell’addio amaro. Il semplice modo in cui la scena è girata – piccoli carrelli, campi e controcampi, campi medi e campi lunghi, e morbidi raccordi… – pare conferire alla componente visuale del racconto una melodia che si abbina splendidamente alle otto note pianistiche che segnano il tema principale della colonna sonora. E’ con sequenze come questa che “Flags of our fathers”, senza discorsi programmatici, arriva a parlare del “tragico perdersi dei singoli nella totalità della guerra” (Roberto Escobar).

Le battaglie dell’immaginario contano dunque tanto quanto quelle vere. Eastwood non si scandalizza di nulla. Nel suo sguardo c’è solo la malinconia di chi ha un’ammirazione tangibile per il coraggio e per il saper fare. Per Clint Eastwood, la parola “bandiera” e il riferimento ai “padri” sono qualcosa di serio, assai lontano da volubili emozioni.

Non è una cosa che si riesce a strumentalizzare politicamente, di cui parlare con superficialità. Iwo Jima è un’isola nera, solforosa. Durante la battaglia, le granate alzano la sabbia fino al cielo, lasciandoci soli davanti a uno schermo oscurato.