Trenta popoli perseguitati
Una contestata mostra a Berlino su cacciate e deportazioni di intere popolazioni.
Una mostra aperta a Berlino nel museo storico tedesco del Kronprinzenpalais di Unter den Linden lo scorso agosto e aperta fino alla fine di ottobre, ha dato origine a critiche e proteste, e ha attirato più di 60.000 visitatori.
Intitolata “Erzwungene Wege”, letteralmente Vie forzate, compie un percorso fra trasferimenti e deportazioni di popoli in Europa nel secolo ventesimo. Trenta popoli europei hanno perso la loro Heimat, si annuncia nel cartello introduttivo, e centinaia hanno dovuto trasferirsi più volte. Norbert Lammert, presidente del Bundestag, spiega nel catalogo della mostra organizzata dal Zentrum gegen Vertreibungen, fondazione nata nel 2000 per occuparsi soprattutto delle espulsioni di tedeschi da paesi dell’est europeo nel secondo dopoguerra, la necessità di ricostruire su una base di conoscenza storica le relazioni fra Germania e paesi vicini, in particolare la Polonia: “Il prezzo della cacciata è la distanza... emotiva dei colpiti verso le istituzioni e i rappresentanti del proprio paese e del paese che rimane estraneo, che in questo modo non può mai essere percepito come un buon vicino”. Ma richiama anche al diritto di critica e alla cautela nell’affrontare una questione che, al di là dell’esperienza umana di coloro che ne furono coinvolti, contiene anche delicati aspetti di contesto e pericoli di crisi nelle relazioni con i paesi vicini: “Sarebbe insensato sviluppare e aver cura di una tale cultura della memoria senza i diretti interessati, ma sarebbe anche poco ragionevole lasciarla solo a coloro che vissero questa esperienza”. “Ogni cultura trova la sua origine nella memoria” - conclude il presidente, e la cultura della pace a maggior ragione. Un modo per parare le critiche di coloro che non hanno visto di buon occhio l’iniziativa? I risultati non sono entusiasmanti.
In esplicito riferimento alla mostra il sindaco di Varsavia, città rasa al suolo dai tedeschi, ha cancellato la sua visita ufficiale a Berlino. I polacchi (ma anche molti tedeschi) sono contrari alla nascita di un centro a Berlino contro i trasferimenti forzati di popolazione, voluto dalla presidente della lega tedesca degli esuli, Erika Steinbach. In Polonia, dove i tedeschi fra il 1939 e il 1945 uccisero tre milioni di ebrei ed altrettanti polacchi e ne resero schiavi altri milioni, questa operazione viene sentita come revisionismo. Il genocidio degli armeni, si dice, non può essere paragonato con i crimini nazisti in Polonia. E si osserva che, contrariamente a quanto affermato nella mostra, non è stato lo spostamento dei confini della Polonia verso ovest e provocare l’esodo dei tedeschi, ma le politiche di sterminio dei polacchi messe in atto dal governo tedesco fino al 1945. Molti osservatori anche in Germania hanno sottolineato il silenzio della mostra sul periodo 1939-1945, a giudizio degli storici decisivo per capire ciò che avvenne in seguito.
Chi scrive è andata a vedere di che cosa si tratta, incuriosita dalle modalità dell’operazione in memoria di popoli e popolazioni fuggiti perché minacciati, o massacrati, o trasferiti a forza per inseguire la pretesa di omogeneità nazionale, o espulsi; un destino che sfiorò anche i sudtirolesi, che ne furono infine salvati dall’accordo fra Degasperi e Gruber.
La fondazione organizzatrice si occupa dei Vertriebenen, gli espulsi tedeschi del doponazismo, con l’obiettivo di ottenere la restituzione delle proprietà immobiliari nei territori che dovettero abbandonare.
E in effetti la parte introduttiva della mostra punta molto sugli aspetti giuridici, pur senza darne affatto conto in modo dettagliato, ma presentando una serie di perdite di diritti e, a fronte, il successo del ricorso al tribunale dell’Aja di una greca di Cipro che ha avuto una sentenza positiva nella sua richiesta di riavere la sua casa situata nella zona turca. Una vera minaccia per i polacchi della Slesia o dei cechi della Boemia.
Nel cuore della capitale della Germania che non dimentica il passato e, nell’enorme operazione urbanistica seguita alla riunificazione, cerca di assorbire fisicamente nel suo centro i segni anche terribili di una storia recente tragica, con musei (del terrore, di Check point Charlie, il nuovo museo ebraico di Liebeskind) e monumenti (nuovissimo quello dedicato agli ebrei d’Europa assassinati), che cosa vuole ricordare questa mostra? Lungo le pareti di una grande sala rettangolare pannelli illuminati illustrano in ordine cronologico esempi di popoli che in maniera diversa persero la loro patria di origine: il genocidio degli armeni, (1915/16); la deportazione e il massacro e la legittimazione dello scambio di popolazioni del trattato di Losanna del 1923 fra Grecia e Turchia; “L’espulsione degli ebrei d’Europa come pietra miliare dell’Olocausto” (dal 1933); il trasferimento degli abitanti della Carelia occidentale (1939/40 e 1940/47); trasferimenti forzati, e deportazioni di polacchi, baltici e ucraini (1939/49); l’espulsione e la deportazione dei tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale; il trasferimento degli italiani dalla Yugoslavia; trasferimenti come conseguenza del conflitto di Cipro (1963/64 e 1974); guerre e espulsioni nella ex-Yugoslavia: l’esempio di Bosnia ed Erzegovina (anni 1990).
La descrizione degli avvenimenti è più o meno accurata, con qualche foto e qualche documento, vista dalla parte della popolazione interessata e talvolta anche delle sue amnesie sul contesto.
Fa sussultare la ricostruzione della storia della persecuzione degli ebrei, che non sono inseriti fra i tedeschi (eppure lo erano) e la cui vicenda di discriminazione e violenta oppressione fino allo sterminio nel regime nazionalsocialista dal 1933 in poi viene presentata come un caso di espulsione, e sembra francamente un’enormità di understatement, anche se la si definisce la prima fase della Shoah.
In diversi casi, come quello dei greci dell’Anatolia e dei greci di Cipro, si indica nel nazionalismo dello stesso stato di appartenenza (la “megali-idea”, il progetto di grande Grecia) la responsabilità dell’accaduto, che le persone colpite difficilmente condivisero. Lo stesso si dica dei tedeschi della Lituania, trasferiti fra il 1939 e il 1941 in seguito al patto fra Hitler e Stalin.
La parte dedicata ai tedeschi è la maggiore, articolata per provenienze: baltici, polacchi, cechi, sudest dell’Europa, eccetera. I visitatori, diversamente che negli altri musei berlinesi, sono quasi tutti tedeschi, spesso persone anziane che hanno vissuto quella vicenda. Per loro è un’occasione per ritrovare il proprio passato. Accanto a me, un uomo, accompagnato da una donna più giovane, descrive con il dito sulla cartina il percorso del trasferimento della sua famiglia di dieci persone dalla Pomerania (Polonia) durante l’inverno con molta neve, dove il problema maggiore, racconta, era costituito dal bestiame. Ricorda i nomi di tutti i paesi, e la paura dell’incombere dell’esercito russo. Si trattava del secondo trasferimento, poiché la famiglia era originaria della Bessarabia, territorio del sudest svuotato di popolazione tedesca in seguito all’accordo fra Hitler e Stalin e portata a ripopolare la Polonia di sangue “ariano”, sulla base del Generalplan, un piano criminale che voleva portare il confine di sangue fino ad una linea che andava dalla Carelia alla Crimea (Gotenland).
Diversi giornali tedeschi hanno osservato che la ricostruzione storica è volutamente lacunosa e politicamente faziosa: da nessuna parte si fa riferimento ai trattati che hanno reso definitivo il confine dell’Oder-Neisse con la Polonia, che il Bund der Vertriebenen ha sempre contestato. Per giustificare il comportamento di molti tedeschi dei Sudeti nel periodo nazionalsocialista, si dice una falsità storica, e cioè che nella Cecoslovacchia, che dopo la monarchia asburgica era un paese democratico, la minoranza tedesca era discriminata. L’effetto di sottovalutazione del contesto che viene dall’aver messo tutti i casi sullo stesso piano è diventata un boomerang per l’intenzione dell’ambigua presidente del BdV di fare a Berlino un centro su questo tema.
Il settimanale Zeit ha scritto molto seccamente che dopo questa mostra si capisce che per garantire l’obiettività è meglio che si favorisca il nascere di una rete fra scuole, musei, ricercatori e istituzioni dei diversi paesi interessati che sviluppino progetti comuni.
Al centro della sala, su cubi che si alzano dal pavimento, si possono vedere filmati e fotografie, e ascoltare interviste e vedere filmati, testimonianze ed esperienze. Due donne di Pola. Diverse testimonianze di donne tedesche violentate dai soldati russi. Un solo ebreo, un giovane musicista che la famiglia riuscì a mandare all’estero, in Argentina, salvandolo da sicura morte. C’è uno sforzo di accuratezza e si comprende la volontà di allargare ad altri popoli la compassione per il destino dei tedeschi. Ma non basta a rendere questa mostra europea. Nel percorso espositivo le differenze fra i contesti storici sfumano e sfuma insieme ad essi la responsabilità dei tedeschi in Polonia e in Cecoslovacchia.
La mostra richiede almeno tre ore, e all’uscita si prova sollievo nel vedere la Neue Wache, il toccante luogo di rimembranza di Berlino, in cui si commemorano i caduti e le vittime delle guerre, delle dittature, delle persecuzioni e coloro che opponendovisi persero la vita. Accanto sta l’Università Humboldt, con la cancellata coperta di manifesti di conferenze e spettacoli multietnici. La nuova Berlino, che forse riuscirà a non riprodurre il passato.