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“Le voci del padrone”

Enzo Marzo, Le voci del padrone. Bari, Dedalo, 2005, pp.221, 15. Democrazia, pubblica opinione ed effettiva possibilità di diffondere il proprio pensiero.

"L’utopista […] è l’unico che, osservando certa realtà del suo tempo, se ne distacca in modo radicale, è l’unico che si muove talmente tanto che riesce a concepire una realtà diversa. […]. Al contrario, è il realista che rimane impantanato nella convinzione radicata che ciò che è abbia una sua ragion d’essere così forte da renderlo immodificabile. La realtà sempre mutevole gli dà torto, ma egli, in adorante contemplazione della realtà, non ci fa caso".

L’utopista che ha scritto queste parole è il giornalista Enzo Marzo, il testo che le contiene s’intitola "Le voci del padrone", la realtà da cui l’autore ha provato a distaccarsi per immaginarne un’altra radicalmente diversa è quella miserrima del giornalismo italiano. Questo "saggio di liberalismo applicato alla servitù dei media" (come recita il sottotitolo dell’opera) è un testo prezioso proprio perché utopico: solo l’utopismo, ormai, può risollevare le sorti infime dell’informazione del nostro Paese.

Il discorso di Marzo parte da lontano, dal quadro più generale, come è giusto che sia: per risolvere i problemi di uno specifico ambito come quello giornalistico bisogna sempre guardare alla società nel suo complesso, dove quei problemi mettono radice. E il problema più grosso, nota Marzo, è che in Italia, oggi, tutti si dicono democratici e liberali, ma democrazia e libertà non trovano cittadinanza alcuna. La democrazia non esiste perché non esiste una pubblica opinione formatasi in autonomia. La libertà manca perché non è libero chi non ha la possibilità di autorealizzarsi raggiungendo il massimo grado possibile di capacità critica.

Quello di Marzo è un approccio liberale profondamente critico. Si parte dall’idea che l’uomo non nasca libero, e che nemmeno possa mai diventarlo: ciò che conta è la possibilità di tendere alla libertà nel corso dell’intera esistenza. La libertà di cui parla Marzo è quella insegnata per primo da Aristippo, quella di chi vuole trovare la via di mezzo tra comando e servitù. Ciò che conta in tale ricerca è lo sforzo, non la riuscita, dato che, osserva Marzo, subire o esercitare il potere è il destino di ogni individuo, e di ogni relazione quello di non essere mai livellata. Il liberale è colui che, pur conscio dell’impossibilità di riuscire pienamente, comunque si sforza di denunciare e rimuovere il Dominio e i dislivelli relazionali, ovunque essi si manifestino. Come? Impegnandosi, come osserva il John Gray citato da Marzo, "per una società aperta in cui modi di pensiero e di vita rivali possano scontrarsi e competere".

Affinché abbia luogo questo scontro tra modi di pensiero e di vita rivali, è necessario che esista la possibilità per ciascuno di poterli comunicare senza restrizioni di fatto. Si può parlare di società democratica solo se la pubblica opinione si forma in un contesto caratterizzato da tale libertà effettiva. Che oggi però non esiste.

Al suo posto, c’è un contesto nel quale comunicano solo pochi potenti e si diffondono solo quelle che Marzo chiama "idee ricevute". La diffusione avviene ad opera di un giornalismo che Marzo, giornalista egli stesso, sferza duramente: "mai testimone della realtà, ma totalmente subalterno ai Poteri".

Marzo avanza proposte concrete per l’affermazione effettiva, e non più solo verbale, del pluralismo informativo. Proposte per un cambiamento degli assetti proprietari davvero radicale. Contro la concentrazione e le posizioni dominanti, Marzo propone il divieto di possedere più di una testata per medium: una sola rete televisiva, un solo giornale, una sola radio, un solo sito Internet. Contro la subalternità ai poteri economici e politici, Marzo propone misure che rendano ogni testata proprietà di chi ci lavora e del suo pubblico: l’obbligatorietà della quotazione in Borsa, regolata da severi limiti al possesso azionario, sia quantitativi che qualitativi (divieto di possedere partecipazioni di rilievo in altre società di qualunque tipo). Già, ma dove potrebbe trovare le risorse per sopravvivere un azionariato diffuso, composto dai giornalisti e dal loro pubblico? Non certo nella pubblicità, che resterebbe forma di condizionamento pericolosa: andrebbero dunque previste, osserva Marzo, provvidenze pubbliche, ovviamente assegnate con criteri ben diversi da quelli attuali.

Si tratta di proposte molto sensate, che indubbiamente renderebbero finalmente effettivo il pluralismo informativo. Ma a Marzo si può obiettare di aver forse messo il carro davanti ai buoi. A un quadro normativo simile a quello da lui tracciato non si può arrivare a tavolino. Occorre che prima si diffonda una cultura dell’informazione radicalmente diversa da quella odierna, sia di chi la fa sia di chi la riceve. Non solo perché senza una cultura dell’informazione radicalmente diversa da quella odierna non si potrebbe arrivare all’approvazione di una normativa come quella auspicata da Marzo, ma soprattutto perché, ipotizzando per assurdo che vi si arrivi anche senza, diverrebbe facile aggirarla. Cosa impedirebbe anche a un azionariato diffuso di produrre un’informazione-merce e non un’informazione-bene, se i giornalisti e il pubblico che lo compongono avessero come obiettivo principale quello di perseguire il profitto attraverso di essa? Cosa impedirebbe il perseguimento di tale obiettivo da parte della stragrande maggioranza delle redazioni, se la visione economicista rimanesse dominante? Si potrebbe passare dalle poche voci del padrone di oggi a molte copie della voce del padrone: anche in quest’ultimo caso, le voci di chi volesse rimanere libero resterebbero comunque schiacciate come accade oggi.

Ecco perché, prima di proporre un modello diverso (per quanto apprezzabile) degli assetti societari delle testate giornalistiche, è importante diffondere valori diversi che ispirino l’attività giornalistica (e la sua ricezione). Ed ecco perché, del testo di Marzo, più della proposta finale ci stimola il percorso fatto dall’autore per arrivarci. In particolare, ci piace l’elogio di uno dei valori fondamentali che dovrebbe essere tenuto in massimo conto dai giornalisti e che invece oggi è rarissimo trovare dentro le redazioni: lo sprezzo per la Verità.

Si tratta del più apprezzabile dei valori liberali, forse il valore liberale per eccellenza, applicabile ovviamente anche al di fuori dell’ambito giornalistico. Il liberalismo, osserva Marzo, è stato, fin dal suo nascere, la contraddizione della Verità. "L’idea liberale […] non s’è chiusa in un ‘sistema’, bensì sfacciatamente ha ostentato il suo relativismo, il suo scetticismo per qualunque connotazione assoluta. Anche per se stessa" (p. 41). "La Verità, – osserva ancora Marzo – per forza logica, deve negare ogni libertà di pensiero, giacché la libertà di pensiero porta a una pluralità di opinioni diverse e contraddittorie che non si escludono e che, riconoscendosi reciprocamente lo statuto di non-verità, non si sopraffanno e si garantiscono uguali diritti di espressione" (p. 78).

La lezione liberale nelle redazioni giornalistiche rimane oggi del tutto inascoltata. Il richiamo al concetto di Verità si declina nel più specifico richiamo all’Obiettività, qualità propria di chi sa cosa è vero e diligentemente ne informa il pubblico. Ma se la Verità non esiste, non esiste nemmeno chi si presume obiettivo nel raccontarla. Il giornalismo obiettivo è allora né più né meno che un’impostura: "ad essa si richiamano i più faziosi, i più subdoli ‘operatori del settore’, per smerciare con un ridondante addobbo di ‘oggettività’ la loro scadente mercanzia".

Obiettività, e con essa imparzialità e completezza, sono per Marzo "tre parolacce", "tre inafferrabili bolle di sapone", che però "inzaccherano ipocritamente ogni pagina dei codici deontologici e delle legislazioni sull’argomento" (p. 80). La natura manipolatoria dell’informazione non deriva dalla mancanza di obiettività, ma all’opposto dalla negazione o anche solo dall’incapacità di vedere che l’obiettività non può esistere.

Il buon giornalista, il giornalista che non manipola, è quello che sa vedersi per quello che è, ovvero non come un cacciatore di Verità, ma, al contrario, come un testimone, il quale, per sua natura, non è obiettivo, né imparziale, né completo.

Questo però non significa, precisa Marzo, che nei suoi resoconti debba trionfare l’arbitrarietà. Il giornalista-testimone ha comunque un dovere, quello dell’accuratezza: nel riportare i fatti mediante la consultazione di più fonti e nel chiarire il più possibile il significato del suo linguaggio a se stesso e al suo pubblico.

"Garantire l’obiettività, la completezza, l’imparzialità dell’informazione": questo impone all’azienda pubblica radiotelevisiva il contratto di servizio tra la Rai e il Ministero delle Comunicazioni. E questo sottoscriverebbero editori, direttori e giornalisti di pressoché tutte le testate.

La fatica di Marzo va apprezzata soprattutto perché ha il grande merito di svelare e denunciare in maniera convincente questo gigantesco equivoco culturale collettivo che oggi compromette gravemente l’esercizio della professione giornalistica.