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QT n. 16, 30 settembre 2006 Scheda

Per un giornalismo senza Ordine

Il parlamentare radicale Daniele Capezzone ha presentato ad agosto la proposta di legge di abolire l’Ordine dei Giornalisti, sostituendolo con una Carta professionale che certifica l’effettivo esercizio della professione. L’opposizione di chi si oppone all’abolizione si basa principalmente su due tipologie di argomentazione, da cui parto per cercare di dare un contributo al dibattito.

La prima argomentazione: "Con il praticantato d’ufficio - avviato proprio da Milano nel 1967 - l’Ordine ha stroncato l’abusivismo nelle redazioni" (Franco Abruzzo, presidente OdG Lombardia). "L’Ordine dei Giornalisti è una fondamentale tutela per tutti, professionisti e pubblicisti, dagli interessi di editori e politici. Questi ultimi, senza l’Ordine continuerebbero a lottizzare e a decidere quali posti e cariche devono essere assunte dai giornalisti’’ (Bruno Tucci, presidente OdG Lazio).

La seconda: "Sottolineo l’importanza strategica per una società democratica del nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione ("corretta e completa"), costruito dalla Corte costituzionale sulla base dell’art. 21 della Costituzione e dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (che è legge "italiana" dal 1955). Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione" (Franco Abruzzo). "[Si dica] se si vuole una professione giornalistica. Oppure se, in un nome di una anarco-liberta’ ciascuno possa fregiarsi di questo titolo’’ (Vittorio Roidi, segretario nazionale OdG).

Alla prima argomentazione, a mio avviso la più debole, il sottoscritto – che è favorevole alla abolizione dell’Ordine – oppone innanzitutto l’evidenza dei fatti, osservando che l’Ordine non è così forte nel garantire l’indipendenza dei giornalisti da editori e politici: potrei ricordare – astenendomi dal farlo solo per ragioni di spazio – un’infinità di episodi emblematici capitati da quando esiste l’Ordine, e specie negli ultimi tempi.

Abruzzo, Tucci e altri fanno leva su un problema che senz’altro esiste, ma che non può essere risolto dall’Ordine col suo praticantato d’ufficio. L’istituzione di quest’ultimo fa il solletico ai Poteri che intendono intromettersi nell’esercizio della professione. A cosa serve infatti il praticantato d’ufficio, se poi chi diventa giornalista professionista non ha scelta ed è costretto a trovare un impiego all’interno di redazioni controllate dagli stessi Poteri cui pure s’è sottratta la facoltà di scegliere chi può diventare giornalista e chi no? E’ come disarmare un nemico togliendogli la pistola e lasciandogli il cannone… Per risolvere il problema che Abruzzo e gli altri sollevano è necessario opporsi direttamente alla presenza dei Poteri dentro le redazioni, in modo che il panorama informativo risulti finalmente accessibile a quelle redazioni che appartengono non ai Poteri ma a se stesse, ovvero ai giornalisti e al loro pubblico. Non ci sarà allora bisogno di un Ordine che garantisca un praticantato d’ufficio contro l’abusivismo nelle redazioni, perché l’abusivismo non sarà più l’unica realtà.

Consente di affrontare la questione direttamente alla radice, invece, la seconda argomentazione portata dai difensori dell’Ordine. Chi l’avanza fa propria quella visione funzionalista del giornalismo criticata con tanta efficacia da Enzo Marzo nel suo "Le voci del padrone" (recensito nelle pagine che precedono). In nome dell’esistenza di una presunta Verità che i cittadini avrebbero diritto di conoscere, si attribuisce al giornalismo appunto la funzione di perseguirla con obiettività. Peccato che la Verità non esista, e l’Obiettività nemmeno, e che esistano invece tante versioni quanti sono i testimoni, i quali non potranno mai essere obiettivi, ma semmai solo onesti e accurati nel loro resoconto. Anche in questi giorni si è avuta testimonianza della diffusione di questo equivoco culturale: "Chiunque può diffondere notizie, anche se in realtà si rivelano solo pensieri personali?", ha domandato opponendosi a Capezzone il segretario nazionale dell’OdG Roidi, come se le notizie non fossero precisamente proprio dei pensieri personali. Il diritto all’informazione discende da una libertà, quella di informare, che, come osserva Marzo, non può essere vincolata ad alcuna funzione (tanto meno a quella di perseguire un’inesistente Verità), ma deve in questo senso restare una libertà "inutile".

Ecco dunque che un Ordine al quale, una volta trovate le rego-le deontologiche in grado di garantire la funzione del giornalismo, si rimandi il compito di accertarne l’apprendimento e di salvaguardarne il rispetto sanzionandone le infrazioni, non ha più ragione di esistere se si ammette l’inesistenza di quella medesima funzione, dopo aver constatato l’inesistenza della stessa Verità che dovrebbe giustificarla. Einaudi espresse il concetto già nel 1945: "L’albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero". Concetto ribadito con forza dallo stesso Marzo sessant’anni dopo: "Se non ci fossero altre motivazioni (e ce ne sono) per sciogliere l’Ordine, basterebbe il carattere funzionale che lo permea tutto a dover far decidere i giornalisti a disfarsene al più presto".

Già pare di sentire le risposte indignate dei difensori dell’Ordine: "Così si lascerebbe spazio al dilettantismo e all’assenza di deontologia". Come se solo la presenza dell’Ordine potesse contrastare un giornalismo scadente oppure praticato senza il rispetto di nessun valore etico o morale.

C’è del paternalismo in quest’idea. C’è alla base la convinzione che il pubblico non possa capire da solo cosa è buon giornalismo e cosa è invece cattivo giornalismo. Forse oggi è effettivamente così, ma non è tenendo in vita l’Ordine che si risolve il problema (come dimostra il tanto cattivo giornalismo che oggi infesta il panorama informativo anche ai livelli che si presumono più autorevoli), bensì stimolando la libera iniziativa dei tanti attori sociali finalizzata a formare i giornalisti e a denunciare l’esistenza del cattivo giornalismo.

Nell’ambito di una professione svolta senza Ordine (perchè di professione si potrebbe continuare a parlare, a dispetto di chi crede che solo l’esistenza di un Ordine possa garantire l’esistenza di una professionalità), ciascuno potrebbe decidere a suo modo come e dove formarsi all’attività giornalistica. Non basterebbe più, al giornalista intenzionato ad acquisire credibilità presso il pubblico, mostrare una tessera che oggi lascia capire ben poco dei valori che chi la mostra persegue nell’esercizio della professione, ma egli sarebbe tenuto a rendere noto al pubblico come si è formato alla professione e a quali valori ne ispira l’esercizio. Starebbe poi al pubblico, finalmente davvero consapevole dell’identità di chi lo informa, accordare o meno credibilità ai giornalisti.

Nell’ambito di una professione svolta senza Ordine, non spetterebbe ad un unico soggetto individuare e sanzionare i casi di esercizio non soddisfacente in base a un solo gruppo di regole, ma, in base a tanti gruppi di regole ispirate dai valori più diversi, potrebbero essere tanti soggetti a denunciare il cattivo giornalismo con svariate attività di monitoraggio critico.

Queste ultime perderebbero la marginalità che hanno oggi, perché diventerebbero un servizio prezioso ad un pubblico che dovrebbe cercare da sé la credibilità giornalistica.

E’ evidente che, nell’ambito di una professione svolta senza Ordine, anche un pubblico con tale necessità avrebbe maggiori responsabilità, e dunque anche l’attività di chi si proponesse di educare alla fruizione giornalistica avrebbe un’importanza maggiore di quella che ha oggi.

Un giornalismo senza Ordine, ben lungi dal rischiare di diventare un giornalismo dilettante o immorale, sarebbe invece un giornalismo più maturo, finalmente adulto.