Sergio Fermariello: eleganza del mito
Le opere di Sergio Fermariello - quelle almeno che abbiamo l’occasione di incontrare a Mezzolombardo (galleria Buonanno, fino al 15 aprile) - sembrano offrirsi al nostro sguardo in primo luogo come una labirintica, raffinata disposizione di segni astratti senza soluzione di continuità. Quasi una scrittura che ci porta in territori contigui alle ricerche sulle interminabili capacità rigenerative di una matrice di segno elementare, come fu per Capogrossi, per la Accardi, per Sanfilippo.
Ma se solo osserviamo la ricerca che Fermariello (Napoli, 1961) sviluppa dalla fine degli anni Ottanta, e vi rapportiamo le opere di oggi, vediamo che i suoi orizzonti culturali ed espressivi rimangono saldamente ancorati a certi segni archetipi. In particolare, ad un segno che diventa per lui una sorta di ideogramma di riferimento: la figura stilizzata, da graffito rupestre, del guerriero ("Warriors" è il loro titolo) che dalle forme esplicite di qualche anno fa è approdata a questi estremi di elaborazione formale.
In realtà, il senso ultimo di questi lavori non riguarda la guerra, ma piuttosto il mito, il riferimento a un passato arcaico, che tuttavia è anch’esso evocato in maniera del tutto sublimata, senza il compiacimento della documentazione antropologica, del reperto o della nostalgia primitivista. E’ il sentimento di un flusso al quale apparteniamo come specie, l’idea di un tempo ciclico, un implicito richiamo alla perdita di contatto con la memoria e ai costi imposti dall’idea di un progresso lineare. Tutte stratificazioni di senso che sono in qualche modo evocate non solo dall’essere, queste opere, frammento di una proliferazione infinita ma dal modo in cui sono realizzate, in bilico tra pittura e scultura: sovrapposizione di superfici, nero su bianco, in cui le ombre prodotte dal primo livello sul secondo entrano con decisione a far parte del risultato finale, come vi entra il variare dell’immagine allo spostarsi del nostro punto di osservazione.
E’ tuttavia spontaneo chiedersi se l’estrema cura degli elementi formali, l’esecuzione priva di sbavature in lamina di alluminio, la ricercata eleganza dell’insieme, non siano percezioni che possono distrarre da una lettura appunto più stratificata, dirottando fin troppo l’attenzione sul piano estetico. A una domanda sulla "cura per la forma e il decoro" che gli rivolge Franco Fanelli (in catalogo), Fermariello risponde di sentirsi in questo "vicino alla sensibilità giapponese. Nel mondo orientale c’è anche l’arte di comporre i fiori, di servire il tè, di tirare con l’arco. L’arte, in tal senso, è anche un saper fare qualcosa in maniera elegante. L’aspetto poetico sta nel rendere possibile un’apertura... uno spazio mentale".