“Old Boy”
Un thriller del coreano Park Chan-Wook sgradevolmente violento ed eccessivo, ma al contempo raffinato nel comparare l'impulso alla vendetta e l'ansia per la conoscenza.
Lo fanno tanto i registi artigiani quanto quelli più consapevoli - per citarne tre, Sergio Leone, Michael Mann e Quentin Tarantino: quando, al cinema, qualcuno ha davanti a sé il nemico a lungo inseguito e potrebbe seduta stante vendicarsi e farlo fuori, si mette invece in scena quasi sempre un lungo dialogo tra carnefice e vittima predestinata. In genere per il vendicatore è una scelta autolesionista, visto che dà all’altro la possibilità di cercare un gesto di reazione o una via di fuga. Ma allora perché intorno al momento dell’esecuzione si crea tutta questa ritualità, questa dialettica tra la vittima e il boia?
Il dialogo risponde certo a esigenze narratologiche - di plot, di tempi narrativi - ma non solo: è come se chi dirige il film non potesse evitare di dar corda a un’esigenza che è propria dei personaggi. Il confronto frontale dà modo al carnefice e al condannato di scambiarsi, presumibilmente per l’ultima volta, informazioni, punti di vista, rispettivi pezzi di conoscenza. E l’esecutore, quello che ha la pistola in pugno, non riesce praticamente mai a rinunciare a questo scambio, anche se sa che allungare la vita a chi gli sta di fronte potrebbe fargli sfuggire la vendetta di mano.
"Old Boy", film coreano di Park Chan-Wook, è in gran parte dedicato alla riflessione su questo dilemma. Assistiamo infatti a due svolgimenti paralleli del tema della vendetta. Un uomo, Oh Dae-Soo, senza sapere perché, si trova rinchiuso per quindici anni in un monolocale-cella. Quando viene liberato, l’unico suo desiderio è quello di vendicarsi contro chi l’ha imprigionato. Ma scopriremo che risponde a una volontà di vendetta anche il motivo per cui Lee Woo-Jin, l’antagonista, l’ha fatto rinchiudere. Dae-Soo si mette sulle sue tracce. Lo identifica e ha presto la possibilità di ucciderlo. Ma non può farlo: non arriverebbe mai, altrimenti, a sentirsi spiegare il perché di quei quindici anni sprecati in una cella.
"Non importa chi sono io, importa perché", gli viene detto da Lee Woo-Jin. E ancora: "Cerchi solo la vendetta o vuoi sapere la verità?". In Dae-Soo sul desiderio di vendetta prevale quindi l’altra ansia, più forte, di sapere perché qualcuno ha voluto distruggergli in modo così scientifico la vita. L’istinto brutale, primitivo di vendetta è dotato di meno forza rispetto a quello, tutto umano, alla conoscenza.
Ma il discorso portato avanti da "Old Boy" - un soggetto ispirato da un manga, una pellicola di genere, un thriller - è ancora più complesso. La dialettica interna al film prevede che i ruoli di carnefice e di vittima si confondano: è Lee Woo-Jin ad aver rovinato la vita a Oh Dae-Soo rinchiudendolo per quindici anni o viceversa il primo, con un suo gesto, ad aver distrutto l’esistenza al secondo?
Il congegno a orologeria messo in atto da Woo-Jin prevede sapientemente che l’ansia di verità di Dae-Soo incontri la sua implacabile voglia di spiegazione: Woo-Jin sa che la conoscenza domina la vendetta e la integra quindi all’interno della strategia che vuole portare Dae-Soo a raggiungere il fondo della sofferenza.
All’interno della memoria individuale, gli stessi eventi assumono pesi non paragonabili. Scopriamo che il motivo dell’incarcerazione di Oh Dae-Soo è un episodio del suo passato apparentemente insignificante. Un piccolo pettegolezzo ha generato il dolore che ha rovinato l’esistenza di Lee Woo-Jin. E’ una percezione di senso comune: un certo condiviso episodio diventa per qualcuno decisivo, per qualcun altro irrilevante e presto dimenticato. La forza dell’agire di Lee Woo-Jin si basa proprio su una frase che ci fa capire quanto il senso della sua vendetta stia tutto nel livellare questi pesi disomogenei - nella conoscenza, nel ricordo, nel dolore: "Un granello di sabbia e una roccia devono entrambi arrivare sul fondo."
La violenza del film - esplicita, sgradevole, anche perché dall’azione sono quasi escluse le armi da fuoco - è funzionale a delle scelte stilistiche che vogliono enfatizzare e spingere fino ai limiti i temi trattati. Come nelle tragedie di Shakespeare, i sentimenti sono solo forti, eccessivi. E così anche la messa in scena deve essere enfatica, visibile, nervosa, portata senza pudore verso la stilizzazione, con una musica studiata per sottolineare le componenti melodrammatiche della trama. Anche le scene più crude - estrazioni di denti con tenaglie, corpo a corpo a colpi di martello, polipi divorati a morsi… - si inseriscono dunque in un ragionamento registico di ampio respiro che vede in tutti questi stilemi un modo per marchiare ancora di più la storia sulla pelle dello spettatore. Nel riassunto, svolto attraverso un montaggio di eventi televisivi, dei quindici anni persi nel bunker da Oh Dae-Soo, l’evento che - subito dopo la caduta delle Torri Gemelle - caratterizza l’anno 2002 è il gol della Corea che elimina l’Italia dai mondiali. Visto che ci viene fornito lo spunto per una metafora, il regista Park Chan-Wook sembra uno di quei calciatori dotati di ottima tecnica che tuttavia cercano senza timore i contrasti e non pensano mai a tirare indietro la gamba.