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“L’epoca delle passioni tristi”

Miguel Benasayag Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi. Feltrinelli, 2004, pp.129, 15. Il futuro che da promessa si converte in minaccia, la crisi delle idee di progresso e rivoluzione, in un libro appassionante rivolto agli educatori.

Una donna francese adotta un bambino di origine asiatica. Piena di buona volontà, consulta subito uno psichiatra per dare al piccolo un nome francese ed evitargli così di subire atti di razzismo. Ma è il nome che fa soffrire il bambino, oppure il razzismo? Se pensiamo che sia il razzismo, non possiamo intervenire solo come clinici: cambiare il nome è un trucco che elimina il sintomo (come prescrivere il Valium, la "pillola della felicità"), ma lascia sussistere la causa esistenziale della sofferenza.

L'autore Miguel Benasayag.

Gli autori sono degli psichiatri francesi, e quindi europei, ma anche dei cittadini, che sanno di vivere in una società in crisi, "l’epoca delle passioni tristi". C’è una sofferenza che non può essere psichiatrizzata, perché dovuta all’esistenza stessa. C’è un destino che ci è stato assegnato, che non possiamo evitare con uno scatto di ribellione. Destino che dobbiamo accettare e conoscere (la "resa"), per organizzare, come possibile, la critica e l’opposizione (la "resistenza").

Il teologo Dietrich Bonhoeffer.

Questo è un libro, un dialogo, rivolto agli educatori. E di genitori, insegnanti, operatori sociali, è affollata la sala a Trento per l’incontro (organizzato dal Centro Antidroga di Valerio Costa), con Miguel Benasayag, argentino di origine, in gioventù incarcerato per essersi opposto alla dittatura nel suo paese. Il suo atteggiamento è mobile: nell’analisi della realtà maneggia gli strumenti della psicanalisi, della filosofia, della politica, nel pensare la terapia, a fronte dello stato di cose presenti, critica con fermezza e agisce con senso del limite. Non cede alla rassegnazione, né al senso di onnipotenza. Leggendolo, e ascoltandolo, io ripenso a Dietrich Bonhoeffer, condannato a morte da Hitler per aver attentato alla vita del dittatore. In carcere, nel 1945, nel suo "Resistenza e Resa", il teologo tedesco scrive: "Spesso qui ho pensato a dove passino i confini tra la necessaria resistenza alla sorte e l’altrettanto necessaria resa. Dobbiamo opporci altrettanto decisamente al destino quanto sottoporci a lui a tempo opportuno. Non è possibile definire in linea di principio i confini tra resistenza e resa, ma è certo che debbono essere presenti ambedue e ambedue devono venire assunte con decisione. La fede richiede questo atteggiamento mobile, vivo. Soltanto così possiamo reggere alle varie situazioni del presente e renderle feconde".

Ma qual è dunque la crisi profonda, a cui la storia ci ha destinati, e dentro la quale dobbiamo operare, da educatori e da cittadini? Per cui dobbiamo aspettarci, (è normale, un evento nella struttura), che il bambino venuto dall’Asia sia investito da atti di razzismo?

Lo storico Eric Hobsbawm, l’autore de "Il secolo breve".

Benasayag ritiene che l’inizio della crisi si possa collocare negli anni ‘70 del ‘900. Secondo Eric Hobsbawm, l’autore de "Il secolo breve", è nel 1975che incomincia appunto "l’età della frana", dopo l’età dell’oro, i trent’anni gloriosi successivi alla guerra. Essa precipiterà, (col crollo del comunismo), nello strapotere del capitalismo, un sistema che stringe in una gabbia d’acciaio la tecnica e l’economia.E’ allora che il futuro muta di segno: da promessa si converte in minaccia.

Il meccanismo funziona, competitivo: la tecnica e l’economia proclamano successi e profitti. Ma paradossalmente noi stiamo male, i bambini e gli adolescenti in particolare. Il mondo diventa incomprensibile, privo di senso. La scienza diventa scientismo: tecnicamente tutto diviene possibile, e anche pensabile eticamente. L’economia diventa utilitarismo: il valore di scambio travolge il valore d’uso. L’ospedale e la scuola diventano aziende.

Ogni limite viene abbattuto: per questo stiamo male. La crisi del principio d’autorità, in famiglia e a scuola, ne è un sintomo indicativo. L’autorità è un bene condiviso, perché garantisce la trasmissione della cultura dall’adulto al giovane, fonda l’educazione sul desiderio di crescere: contestare le norme ha senso in una comunità da rinnovare, ma che persiste, protegge. Quando questo legame (dell’autorità che pone dei limiti, con cui confrontarsi) si spezza, gli succede, inefficace, l’autoritarismo: si insegna con la minaccia. Non sappiamo ripetere altro che: "Devi imparare, perché nella giungla devi essere forte, all’altezza".

Il disagio, le "passioni tristi", sono questa disgregazione, questo legame che viene a mancare, si dissolve, fra noi e gli altri, e dentro ognuno di noi.

La cura non può essere che ricostruire, pazientemente, i legami, in questa società competitiva, utilitaristica, tecnicizzata. Devono provarci il clinico, e ogni educatore. La strategia che Benasayag propone alla scuola è di insegnare l’inutile.

Sono le pagine che leggo con maggiore attenzione. Quante volte i miei studenti, di un Istituto Tecnico Industriale, mi hanno domandato: a che serve la storia? e la poesia? E’ stata una sfida, ogni mattina all’aprirsi dell’aula, con Dante e Leopardi sul banco, assediati fra officine e laboratori, il sottoporre a critica le sorti "magnifiche e progressive", in nome della fragilità degli uomini.

La forza di questa proposta sta nella sua valenza politica. Sorprese tutti la spiegazione di Giovanni Bollea, il decano degli psicoanalisti italiani, il giorno della tragedia, quando Erika e Omar uccisero la mamma e il fratello: questo succede perché in famiglia, e a scuola, non si parla più di politica. La politica è fiducia nella parola che lega, che media: la violenza, la guerra, scoppiano quando si interrompe il discorso sulle divergenze che ci separano. E allora discutiamo, facciamo qualche obiezione, al ragionamento politico di Benasayag. E se la crisi, il futuro vissuto come "minaccia" e non come "promessa", invece che datare dagli anni ‘70 del Novecento, dall’età della frana, venisse da più lontano, dal cuore stesso dell’età moderna? "Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita moderna, e non abbia creduto di essere davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di essere nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità". Con questa osservazione di Walter Benjamin probabilmente Benasayag non concorda.

Lo psicanalista Giovanni Bollea.

Progresso e rivoluzione sono categorie costitutive della modernità: è l’individuo che acquisisce gradualmente centralità emergendo dal "cosmo" medievale di "corpi" e "ordini" prestabiliti. Rompe i legami antropologici, sociali e culturali, che lo tenevano protetto in uno spazio e in un tempo ben noti. L’esito finale è però preoccupante: l’individuo appare oggi stretto fra solitudine e conformismo, fra atomismo e massificazione. Scrive Elena Pulcini, in un saggio dal titolo significativo, "L'individuo senza passioni", che l’età moderna "spezza ogni legame: sia quello tra l’individuo e i propri avi e discendenti, sia quello tra l’individuo e i propri contemporanei".

La patologia non si è dunque infiltrata dall’esterno nel nostro organismo, intrinsecamente sano, soltanto da poco. La crisi delle idee di progresso e di rivoluzione, come possibilità dell’uomo, faber e civis, di modificare la realtà, è inestricabilmente connessa al loro affermarsi. Quando Freud parla di "disagio della civiltà", e Nietzsche di "morte di Dio", spingono lo sguardo più lontano di Hobsbawm, il quale sa, per altro, che il Novecento inizia con "l’età della catastrofe". E Spinoza, inventore delle "passioni tristi", è un filosofo del ‘600.

Ma cosa cambia per un educatore se, politicamente, guarda alla storia scandita secondo una periodizzazione diversa da quella dei due psichiatri francesi? Cambia che non si vede più solo, e primo, di fronte all’impresa di ricostruire i legami. L’età che ci è data da vivere ha delle specificità, ma anche delle continuità con quelle che l’hanno preceduta.

Ma soprattutto l’educatore scopre che i legami che la modernità ha brutalmente spezzato erano sì protezioni che davano identità e sicurezza, ma anche vincoli che opprimevano. E’ ambigua la modernità: produce solitudine e libertà. Quel mondo che a Benasayag pare una gabbia d’acciaio, un muro liscio senza appigli, io preferisco vederlo intriso di crepe, attraversato da antinomie. I loro nomi sono mercato, tecnica, democrazia. Può la persona vivere, possiamo educarci a vivere, in più dimensioni: la competizione e la cooperazione?

Il pedagogista Jerome Bruner.

Con la rivoluzione industriale la cultura, fino ad allora disinteressata, aristocratica, si incontra con il lavoro, denigrato da sempre. E’ una conquista storica irreversibile. Nella mia attività di insegnante ho trovato un barlume di luce nella concezione di Jerome Bruner, il pedagogista americano. Il sistema educativo deve produrre una forza lavoro adeguata alla società industriale, e deve formare dei cittadini, delle persone, capaci di rinnovare il mondo. Deve dare il senso delle identità particolari di appartenenza, e aprire alle verità universali. Nel fondo l’antinomia è fra l’adeguare i giovani a una cultura che la storia ci consegna già data, e il trasformarla creativamente per i giovani stessi che cambiano, fra la società che pretende disciplinamento, e l’individuo che aspira a realizzarsi.

Con i giovani sono riuscito a stabilire un legame non quando ho contrapposto la storia e la poesia alla tecnica e all’economia, (l’inutile all’utile), ma quando ho chiamato le due dimensioni, nel legame interdisciplinare, a interrogarsi reciprocamente. Costringendo me stesso, e i ragazzi. Secondo modalità, è ovvio, sempre troppo rozze e inadeguate. Il futuro non concede promesse, solo uno sprazzo di senso. C’è cultura nella mano che si muove nel laboratorio e nell’officina, e c’è lavorio nella mente del poeta che misura il ritmo dei versi.

Perché Miguel Benasayag, nella terapia del creare legami, lo fa fronteggiando la "gabbia d’acciaio", inespugnabile, invece che infiltrandosi nelle antinomie? Quasi che lo scontro politico sia segnato in partenza, e sia possibile soltanto costruire legami in nicchie fortunate, sociali. Ascoltandolo mi sono dato una risposta, che lo rende più degno di rispetto e di attenzione.

Lui viene da una sconfitta, in una battaglia campale, eroica: è stato un "comunista" latinoamericano, vicino a Che Guevara. "Oggi sono uno psichiatra di strada, non frequento le stanze dei ministeri", afferma con orgoglio. La politica, come la tecnica e l’economia, è ormai un territorio caduto (per sempre?) in mano al nemico, da spiare in lontananza, con diffidenza.

Io sono seduto in sala accanto a Marco Rossi Doria, che a Napoli è maestro di strada. Ma che, ai tempi di Tullio De Mauro, ha accettato di entrare anche nella commissione per riformare la scuola. Siamo più avanti se uomini esperti, di strada, sono invitati lassù. Quaggiù, allora, lavoriamo meglio anche noi. E’ quella pratica di "resistenza" e "resa" che è l’insegnamento più profondo del libro.