Come è morto Stefano Frapporti?
Un’intelligente esperienza di teatro civile
“Un ragionamento con il pensiero e con il cuore”, promette la locandina. Siamo nella sala Filarmonica di Corso Rosmini, vicinissimi ai luoghi del dramma: la caserma dei carabinieri dove Stefano Frapporti è stato condotto, la sera del 21 luglio 2009, e il carcere dov’è morto impiccato, pochissime ore dopo il fermo. Ma la prossimità della recita alla realtà non è solo topografica. A introdurre è Ida Frapporti, la sorella di Stefano. Belle fotografie del protagonista di questa tragedia, testimonianze filmate di fratelli ed amici che cercano di delinearne la figura incombono dallo schermo. Sulla scena poi, a rappresentare le narrazioni ufficiali e quelle ipotetiche del dramma, ci sono attori vicini all’uomo che ne è stato distrutto, amici suoi o della sua famiglia.
Condizioni straordinarie come queste predispongono lo spettatore all’empatia. Chi ha costruito testo e regia si è tenuto però lontano da una superficiale sollecitazione della pietà per la povera vita straziata. Si esce turbati ma a ciglio asciutto, inquietati da quanto si intravede di disumano nel meccanismo che ha prodotto questo esito.
Si tratta, a modo suo, di un’esperienza di teatro politico. Ma anche sotto questo profilo, non si è scelta la strada della denuncia adirata, dell’ “io accuso” con l’indice puntato sulla crudeltà dei responsabili. Non che carabinieri, direzione del carcere, guardie vengano risparmiati da rispetto istituzionale o da una qualche serafica indulgenza. Ma l’efficacia del lavoro di Fabio Tittarelli (il principale autore di una costruzione collettiva, se abbiamo bene interpretato le indicazioni sulla genesi del testo) sta nell’offrire un vasto ventaglio di ipotesi interpretative, nel proporre come questioni aperte le cento e più domande che la vicenda suscita, evitando di depotenziare la tensione dell’inchiesta in un’individuazione sommaria dei colpevoli.
Intendiamoci, la messa in scena di ricostruzioni ipotetiche del dramma non ha nessun sapore relativista e men che meno implicazioni assolutorie nei confronti delle istituzioni e delle persone responsabili. Le versioni ufficiali affidate ai verbali vengono smontate pezzo per pezzo. E, fin dall’introduzione di Ida Frapporti, la recita si contrappone esplicitamente alla temuta liquidazione assolutoria dell’inchiesta giudiziaria. Ma nemmeno vuole sostituirsi ad essa, nemmeno emette sentenze univoche e frettolose.
Il proposito di costituire “un ragionamento con il pensiero e con il cuore” mi sembra realizzato, nonostante la povertà dei mezzi anche espressivi, volta tuttavia con intelligenza in risorsa per un rapporto solidale con il pubblico.
La sala è affollata, probabilmente in occasione dell’unica recita precedente lo era ancor più. Ho l’impressione che il pubblico sia costituito in massima parte di persone amiche di Stefano Frapporti e della sua famiglia, nonché di quella parte della città che è più sensibile al tipo di conflitto che questa vicenda incarna dolorosamente: non solo la pur consistente area di militanza o simpatie anarchiche, ma un microcosmo più composito e comunque distante dalla politica istituzionale.
Si misura qui un paradosso che caratterizza questo dramma. Quell’uomo rimasto solo nelle ore estreme non era e non è solo, aveva e ha intorno una società viva, reattiva, capace di risposte di elevata qualità democratica come questo spettacolo-inchiesta. Un soffio appena di ottimismo sembra aleggiare negli applausi finali, quasi un catartico sollievo. Ma anche nel congedo finale si replica l’appello a una mobilitazione difficile, di fronte all’ipotesi di un’inchiesta giudiziaria che potrebbe chiudersi prima di cominciare.
La città delle istituzioni è assente, e non solo in questa sala nella quale in altre epoche abbiamo discusso appassionatamente di fermo di polizia, di omicidi di stato, dei delitti e delle pene. Eppure le questioni propriamente politiche che il caso Frapporti, come troppi altri, solleva sono moltissime, dalla legislazione sull’uso di sostanze stupefacenti a una concezione sempre più iniqua dell’ordine e della sicurezza. Riproporre (anche in sedi diverse da Rovereto) questo esempio di teatro civile darebbe un contributo minimo al salto di qualità della coscienza collettiva che è necessario. Ma sarebbe, mi pare, una cosa giusta, più ancora che utile.