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“L’individuo senza passioni”

Elena Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale. Bollati Boringhieri, 2001, pp.230 , £.40.000.

Il saggio di Elena Pulcini, docente di Filosofia politica all’Università di Firenze, non è dedicato alla pace e alla guerra. Studia, infatti, la nascita e le trasformazioni dell’individuo moderno, il "progetto emancipativo" di cui è portatore, e le "degenerazioni patologiche" in cui rischia di precipitare. Ma quando, con l’attentato a New York e la guerra in Afghanistan, il mondo ripiomba nella violenza, il lettore cerca risposte, e pone domande, anche a brandelli, dovunque la mente sia stimolata a pensare.

Proviamo a riassumere la tesi del libro. L’individuo dell’età medievale, eroico e aristocratico, si ispira all’etica dell’onore, è mosso dalle passioni disinteressate della gloria, della generosità, del dispendio gratuito di sé.

Nell’individualismo della prima modernità, l’homo oeconomicus è invece motivato dal desiderio del potere e della ricchezza. Interessi e passioni fanno dell’altro un nemico (Hobbes) o un rivale (Smith).

L’allentamento dei legami emotivi cresce nell’homo democraticus, per il quale la figura dell’altro non sfocia più nel conflitto, come nel liberalismo, ma nell’apatia e nell’indifferenza (Tocqueville). L’identità individuale si incrina e si indebolisce il legame sociale.

E’ Norbert Elias a collegare il "processo di civilizzazione" al graduale "disciplinamento delle passioni." Le società feudali, guerriere, sono caratterizzate dalla libera e illimitata manifestazione dei propri impulsi, a tavola, a letto, in battaglia. I fenomeni storici, tanto i comportamenti umani quanto le istituzioni sociali, sono "divenuti": si è passati, nella storia, dal mangiare con le mani all’uso della forchetta, dai rapporti liberi al matrimonio monogamico.

Si è "passati" dalla violenza privilegio di guerrieri in libera competizione, al monopolio della forza in mano allo Stato centralizzato e assoluto. Bertran de Born, trovatore del XII secolo, scrive di "godere nel cuore" alla vista di "una grande moltitudine di armati", di "castelli assediati e rotti", di "morti trapassati nei fianchi da tronconi di lancia con gli stendardi". Il piacere di torturare e uccidere è grande, ed è un piacere cui la società acconsente. Quando la guerra è una condizione normale, "ne deriva un tale incanto che colui che non l’ha mai provato non è uomo che possa dire quanto è bello." . E’ Jean de Bueil che così parla, nel XV secolo. Il pensiero corre a Dante: "Mostrasi sì piacente a chi la mira,/ che dà per li occhi una dolcezza al core,/ che ‘ntender no la può chi no la prova." Dante però descriveva, con queste parole d’amore, Beatrice.

Dove i sentimenti sono impetuosi e diretti, non c’è posto per sfumature e complicazioni: vi sono amici e nemici, gioia e dolore, buoni e cattivi. La religione - ricorda sempre Norbert Elias - non è sufficiente da sola a "civilizzare", o a moderare gli affetti. Al contrario, la religione è "civilizzata" nella stessa misura della società che la sostiene. Il vescovo Turpino, ne la "Chanson de Roland", si rivolge ai paladini cristiani, in guerra con i musulmani, con queste parole: "Martiri santi sarete, se morite,/ e avrete i seggi nel più alto Paradiso. … Per Dio vi prego: siate soltanto attenti/ a ferir bene, a dar colpi e riceverne!"

Quando lo Stato moderno assume il monopolio della forza, "sgrava" gli uomini dalla necessità della violenza privata, ma anche dalla possibilità dell’azione gloriosa, disinteressata, appassionata. E’ questo il guadagno, ed è questa la perdita. L’individuo diviene così sempre più disciplinato, ma anche privo di passioni, di legami emotivi con gli altri individui. In modo più radicale, Bataille spiega che la violenza è rimossa in nome del principio dell’autoconservazione e dell’utile.

Il passaggio dall’ideale cortese a quello borghese è narrato da Giovanni Boccaccio nella novella di Federigo degli Alberighi. Il nobile fiorentino, per conquistare l’amore di Giovanna, "giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva". Lo stile di vita aristocratico lo impoverisce, ma le passioni disinteressate, e con esse la coesione sociale, che innervano quel modello, si dissolvono quando Federigo diventa "miglior massaio", cioè un borghese, in linea con i tempi nuovi. La grettezza borghese, egoista, si manifesta nei fratelli di Giovanna, increduli che la sorella voglia sposare Federigo ridotto sul lastrico: "Sciocca, che è ciò che tu di’? come vuoi tu lui che non ha cosa del mondo?" E spetta alla donna, quasi discepola di Rousseau in anteprima, tentare la difficile conciliazione: "Io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza, che ricchezza che abbia bisogno di uomo". C’è dunque connessione fra l’armeggiare e il donare, ma anche fra l’amministrare e l’inaridire.

Elena Pulcini accompagna le trasformazioni dell’individualismo non con le figure della letteratura, ma attraverso i filosofi, da Montaigne a Hobbes, da Smith a Rousseau, a Tocqueville. Gli esiti finali sono preoccupanti: l’individuo appare oggi stretto fra atomismo e massificazione, solitudine e conformismo, narcisismo e apoliticità.

E’ Tocqueville a cogliere con più acutezza la patologia crescente dell’individuo nella modernità. E’ la passione del benessere ad alimentare la struttura emotiva dell’homo democraticus. Ma la democrazia "spezza ogni legame: sia quello tra l’individuo e i propri avi o i propri discendenti, che, pur nella gerarchia, caratterizzava fortemente le società aristocratiche; sia quello tra l’individuo e i propri contemporanei che, pur all’insegna della rivalità e di una egoistica competitività, caratterizzava la società liberale della prima modernità."

La passione dell’uguaglianza, inoltre, non tollera differenze: produce una società di indifferenti (alla cosa pubblica). "L’energia che gli uomini spendono nei piccoli affari, li placa sui grandi", scrive Tocqueville ne "La democrazia in America". A questo dunque, ci domandiamo, sono destinati gli americani, e gli occidentali in genere, nell’era della democrazia?

La società di massa, afferma l’autrice, "separa gli uomini senza distinguerli e li riunisce senza metterli in relazione." All’individualismo narcisista postmoderno si accompagna però, fenomeno opposto e complementare, una tendenza al ritorno a comunità regressive: un essere -in- comune che certo riattiva passioni, ma attorno a identità esclusive e distorte.

Non c’è dunque una terza possibile configurazione tra l’apatia dell’Io e la violenta passionalità neotribale? Nota Norbert Elias, ne "Le buone maniere", (del 1938!), che l’aggressività delle nazioni più bellicose del mondo "civile" è più attenuata di quella di un combattente abissino, ma che essa può esplodere in modo più diretto e impulsivo nelle guerre coloniali, quando il controllo sociale è meno rigoroso.

Può esserci di qualche aiuto, in questi giorni, l’analisi storico-filosofica di Elena Pulcini, per districarci fra gli interrogativi che il terrorismo e la guerra ci pongono? Nessuno fra chi approva oggi i bombardamenti in Afghanistan, nel Parlamento italiano, sui giornali, nelle assemblee in cui i cittadini si riuniscono per confrontarsi, ripeterebbe le parole di Bertran de Born, "incantato" dalla battaglia, "dai morti trapassati nei fianchi". Ognuno, "disincantato", si sforza di giustificare la dolorosa necessità con ragioni. Sembra lontano anche il tempo, cento anni fa, quando Tommaso Marinetti glorificava la guerra come "la sola igiene del mondo".

Sta appena in questo, nel disincanto, il progresso che abbiamo compiuto? O dobbiamo considerare questo un passaggio importante, sulla strada per introiettare nella coscienza, un giorno, la guerra come un tabù? A quante passioni abbiamo dovuto rinunciare per poter ragionare di guerra così, un poco più distaccati? Ma le passioni, il "dono", sono allora inestricabilmente connesse al "giostrare" eall’"armeggiare"? O invece, il linguaggio che torna, di amico e nemico, di bene e di male, o con noi o contro di noi, è il bisogno del ri-scatenarsi, (per quanto?), di quelle passioni che credevamo di avere imbrigliato? Anche Dio è trascinato nella mischia, a sostegno, da ognuno dei contendenti.

Sulla guerra scrive in questi giorni lo storico Marco Revelli: "Io me ne rendo conto: la politica oggi riesce a dare solo questa risposta. Non solo la nostra piccola politica, ma anche quella grande, globale." C’è un misto di disperazione e di compassione in queste parole, per i governanti, e per noi che li abbiamo dovuti eleggere. E’ questa la fase della storia umana in cui siamo stati chiamati alla vita, in cui le costrizioni ci vincolano pesantemente. Ma poi prosegue: "Non credo che un uomo di Stato abbia la possibilità di uscire da quella logica, ma credo che una parte consistente di uomini di buona volontà debba farlo. La sorte dell’umanità è troppo importante per lasciarla ai politici e agli Stati." Ci sono condanna e fiducia in questa analisi schizofrenica: al politico il destino, colpevole, di assumersi la responsabilità della forza, all’uomo di buona volontà il compito, senza certezze, di immaginare un "altrove", la convivenza fra popoli e culture diversi. Germi capaci di condizionare, innervare, domani, ma al più presto, una politica nuova, globale.

Dopo l’attentato dell’11 settembre, tutti si aspettavano una risposta militare degli Stati Uniti. Qualcuno la approvava, altri la condannavano; a ciascuno, comunque, pareva una fatalità ineluttabile. Nessuno, a me pare, nemmeno "gli uomini di buona volontà", pensava che il "dono" potesse essere diverso. Giovanni Kessler, il parlamentare dell’Ulivo che in Parlamento ha poi votato contro la partecipazione dell’Italia alla guerra, in un dibattito pubblico ha affermato che la potenza americana "doveva" rispondere con le armi, per una questione, se non altro, di "identità nazionale".

Sulla scia di Marcel Mauss, Elena Pulcini conclude con una proposta di speranza. L’individuo democratico è ambivalente: indifferente, slegato, omologato, disaffezionato al bene comune, ma anche capace di riconoscersi membro, debole, di una universale umanità. La passione del "dono" non è dunque connessa solo all’"armeggiare" dell’età premoderna, ma può nascere anche dalla consapevolezza, nell’"homo reciprocus", che il dono è insieme obbligo e libertà, debito e autonomia, interesse e gratuità. Dall’individualismo egoista e indifferente che ci minaccia, non ci redimiamo con l’invito ad un irenico altruismo, ma scoprendoci tutti, di fronte alle sfide globali, fragili "cittadini del mondo". Il dono a estranei, a stranieri, alle generazioni future, rompe la circolarità dell’interesse e persino dell’amicizia. C’è, in questo auspicio, l’afflato leopardiano de La Ginestra: "Nobil natura è quella/ Che…/ Tutti fra sé confederati estima/ Gli uomini, e tutti abbraccia/ Con vero amor, porgendo/ Valida e pronta ed aspettando aita."

Dopo la stagione della liberté e dell’égalité, forse è arrivato il tempo della fraternité. Dopo il Dio degli eserciti, il Dio della pace. Talvolta è brancolando nel buio delle tragedie che gli uomini, creativamente, sanno innovare le regole della convivenza.

Il giovane palestinese che, morendo, dona gli organi all’israeliano ferito, può essere il segno del mondo nuovo.