“Napoli milionaria”
Per la regia di Francesco Rosi e l'interpretazione di Luca De Filippo, messo in scena al meglio il commovente lavoro del grande Eduardo.
La guerra, si sa, lascia ferite profonde. E quella che devastò l’Europa fra il 1939 e il ’45 ha inciso la storia in modo ancor più lacerante; non solo nei palazzi del potere, ma soprattutto nel cuore e nella vita della gente. La grandezza di Eduardo è proprio la capacità di leggere, rappresentare con affetto – senza giudicarlo – il meglio e il peggio di uomini e donne comuni dentro un gioco più grande di loro. "Paise distrutte, creature sperze, fucilazione… e quanta muorte… ‘e lloro e ‘e nuoste… e quante n’aggio viste… ‘e muorte so tutte eguale… Chesta, Amà, nun è guerra, è n’ata cosa… è na cosa ca nun putimmo capì nuie…". Qui tocchiamo la nostra piccolezza, l’impotenza di fronte a un orrore che non si può capire perché s’è spinto troppo oltre; e indietro non si torna.
Una gigantografia pone in primo piano i "bassi" bombardati dei quartieri storici di Napoli, vale a dire quelle abitazioni poverissime e con una sola stanza che danno sulla strada. Scomparsa la stampa, scopriamo l’interno: dal basso nascono, spontanee quanto inaspettate, solidarietà, attesa, speranza. Prende corpo, giorno per giorno, la coscienza dei singoli, della famiglia, di un popolo in bilico fra guerra e liberazione. L’arte d’arrangiarsi diviene borsa nera, coi generi alimentari nascosti in perfetto ordine fra i materassi, neanche fossero scaffali di supermercato. L’egoismo è quasi crudele; l’altruismo, talvolta, ha il peso di un macigno: l’uomo in disgrazia a causa di Amalia è lo stesso che le procura un’introvabile medicina, dando una durissima lezione morale. Il retrogusto amaro svanisce solo quando Gennaro finge d’essere morto, tra sceneggiate funebri e spassose allusioni (il "pigliatillo" al brigadiere). Ma il punto è la saggezza che distingue il mariuolo per necessità da quello delinquente, rispetta i vivi perché sono tutti uguali come i morti, sancisce la riconciliazione familiare e sociale col rito del caffè.
Splendidi e funzionali costumi e scene di Job, cui il dialetto trasmette con forza la dimensione sociale del testo. Il cast, poi, è impeccabile: De Filippo e D’Abbraccio in testa, seguiti da Russo (Amedeo), Baffi (Rosaria) e Savoia (Settebellizze). Toccante e complesso il brigadiere di Del Matto, mentre la vicina (Salvato) è ben più di una macchietta; certo ha una risata contagiosa, ma anche in lei s’avverte l’asprezza della vita. E dopo tre ore intense, la compagnia è chiamata sul palco sette volte.
Per la Stagione, un ottimo inizio, che definiremmo "trionfale" (perché tale è stato) se l’aggettivo non offendesse il senso di "Napoli milionaria!", lontana anni-luce da riflettori e servizi da rotocalchi. Il suo successo non si misura su tutti esauriti e scrosci d’applausi, ma su come fa breccia nell’anima, magari per una sola sera; e l’allestimento di Rosi ci è riuscito.
La guerra non finirà, ora si tratta solo d’aspettare che passi la nottata. Intanto ci sembra d’abbracciare l’Italia intera in attesa; un’immagine dolce, materna, così fragile… Purtroppo, di là dalla commedia, andò diversamente. Poco a poco, nonostante il piano Marshall, la fiducia in un mondo migliore da ricostruire s’è dileguata. Ma questo, nel ’45, Eduardo non poteva saperlo. Se n’accorse qualche anno dopo, assieme a molti altri italiani, napoletani e no; e fece suo (come noi dovremmo fare) l’insegnamento di S. Agostino: "La Speranza ha due bellissimi figli: Sdegno e Coraggio. Sdegno per le cose come sono, Coraggio per cambiarle".