Emit Flesti: croce e delizia
Alti e bassi nella rassegna "Trapassatoefuturo" della compagnia Emit Flesti: convincente sotto ogni aspetto il "Rosencrantz e Guildenstern sono morti"; forzato "Sarò padre" di e con Marco Berlanda.
Grande teatro, serio, engagé. Questa l’impressione dopo "Rosencrantz e Guildenstern", confermata più avanti da "Jacques e il suo padrone". Peccato dunque per l’intoppo finale con "Sarò padre", dove il tema della rassegna "Trapassatofuturo" ha perso limpidezza: sagace e sottile la lettura del presente attraverso il passato, non altrettanto quella del futuro (immaginato) attraverso il presente. Ma i risultati – alti – sono stati raggiunti, confermando la bravura e l’impegno del regista Rocco Sestito e dell’Emit Flesti, una delle poche compagnie, in Trentino, che possa davvero dirsi tale.
Con una pagina a disposizione, ci soffermeremo sull’ultimo ed il primo appuntamento: ovvero, "croce e delizia". Partiamo dall’amaro. "Sarò padre", scritto e interpretato da Marco Berlanda, che dovrebbe dare un colpo di piccone ai nostri stereotipi su lavoro, successo, identità… Eppure, invece d’intaccarli mostrandone la falsità, l’autore spinge la platea a riderne di gusto, a stare al gioco. Così viene meno l’assunto stesso della pièce: il labile confine fra giusto e sbagliato non ci permette di giudicare gli altri in base al nostro personale punto di vista. "Niente di nuovo sotto il sole", è vero, ma essere originali non è un dovere. Lo è, in compenso, avere idee chiare sui temi trattati, mentre l’attore-drammaturgo le affastella costruendo una tesi debole, spacciata per ideologia forte contro il sistema e i pregiudizi. Il risultato è un pasticcio teatrale, non nel senso, purtroppo, di pastiche, di opera che mescola a mo’ di centone brani altrui. Non è questa l’intenzione di Berlanda, che si prende troppo sul serio: grandi ambizioni, bersagli potenti… troppi, e ne centra solo uno: l’alienazione. Un colpo di genio, ad esempio, la guida schizofrenica in città, in sincrono col ritardando e accelerando della "Danza ungherese n° 5" di Brahms.
Altre pantomime, sublimi e toccanti, pervadono lo spettacolo: valga, per tutte, il meccanico e mefistofelico teatro di marionette, reso ancor più tetro dalle ombre cinesi. Ci è parsa invece più una forzatura, quasi uno sfoggio, la citazione pedissequa di una celebre sequenza dal "Grande dittatore" di Chaplin. Non è autentica e spassosa quanto il verso a Cary Grant in "Arizona Dream", e l’intreccio non la giustifica appieno.
Tuttavia, la forma in genere è impeccabile: sapiente regia, bravura espressiva, belle e azzeccate musiche che accostano hip-hop, classica, melodie kletzmer, voci elfiche di soprano. A mancare è l’ingegno della parola, una dialettica che esprima il pensiero dell’autore, riallacciandosi al tema forte della rassegna. Sconcerta – ed è per noi imbarazzante – constatare che il pubblico, non numeroso, s’è accontentato di così poco e non ha sentito la differenza tra quest’appuntamento e i due precedenti. Certo non è un campione rappresentativo, ma l’episodio fa riflettere sulla "educazione al teatro" (e all’arte in generale) di alcuni trentini. Berlanda non è Brecht, Genet o Dürrenmatt, e nemmeno Stoppard o Kundera. La sua forza non è nell’idea; è nella mimica, nella strabiliante capacità di camuffarsi in chicchessia, accento e tic compresi. "Sarò padre" sarebbe un gioiello godibilissimo, a patto d’essere uno spettacolo muto.
E dopo la croce, la delizia. "Rosencrantz e Guildenstern sono morti" ha convinto sotto ogni aspetto, dalla scenografia minimale e funzionale (firmata Pegoretti e Vallin) alla resa del testo, dai costumi all’interpretazione. Gli attori, perfettamente in parte con rare e trascurabili incertezze, sono apparsi in ottima forma, soprattutto i due protagonisti (Alessandro Franceschini e Massimo Lazzeri) e il capocomico "pornografo" (Alessandro Della Costa). Non per nulla la pièce ha vinto, meritatamente, tre premi al Festival Sipario d’Oro 2004: miglior attore protagonista, non protagonista e allestimento scenico. Quest’ultimo, in particolare, riporta l’opera alla sua dimensione teatrale: è il dramma stesso a raccontare di sé, di ciò che accade dietro le quinte, senza contaminarsi col cinema come nella versione di Bruno Stori e Letizia Quintavalla. Il capocomico, che recita la parte di un attore, conosce trama e finale di "Amleto", mentre Rosencrantz e Guildenstern partecipano, controvoglia, a un gioco di cui ignorano persino le regole. La loro è una comica tragicità: quei discorsi buffi e senza senso sono il motore dell’azione, la fatale ingenuità per cui il riso "tosto torna in pianto" con una splendida e lugubre sinfonia finale. Un’opera che davvero, e nel profondo, fa riflettere su chi siamo e quale sia il nostro scopo, se ve n’è uno. E perciò giustamente inserita, come "Jacques e il suo padrone", in un discorso che colpisce nel segno e scalfito appena, ma non danneggiato, da un inciampo. È questa la strada, spesso accidentata, delle compagnie che contano, come l’Emit Flesti.