Peccati di gola e di parola
“Cibus”: a Parma il meglio della produzione alimentare italiana.
Lo scultore Arturo Martini, tra i più importanti del secolo, scriveva: "Quando ti rientra la personalità, torni al dialetto e senti che ti è sufficiente". Se poi ci avviciniamo alla voce della poesia, possiamo dire con Hermann Heller che la forte presenza di una produzione letteraria in dialetto che si stende per molti secoli è il più originale e affascinante aspetto della cultura italiana. Perché questo incipit? Because in questi giorni mangia e beve trentino il poeta che scrive in dialetto milanese Franco Loi, candidato al Nobel della letteratura, invitato a Sarnonico ad un incontro sul "piacere della parola".
E sono proprio i poeti dialettali, anticentralisti linguisticamente - per ricordare un aggettivo pasoliniano - che provano a dare testimonianza di ciò che sta morendo. Se il dialetto perde la presa diretta del reale, ne acquista però come segno della distanza, della nostalgia, della profondità, della "squisitezza" (sempre Pasolini). Ma a ben dire, scusate un po’, squisitezza, piacere della parola, piacere e basta, non vi sembra che vi siano molti riferimenti al cibo? Sarà che recentemente siamo andati a Parma ad assaggiare il meglio della produzione alimentare italiana, sempre per rimanere in tema di presa diretta del reale! Altro che Gaspare Traversi e l’arte del tempo in Emilia per far luce sul Settecento! Si parte dal salato o dal dolce? o quello che trovi trovi?
Quello che è importante è il rito del racconto, è l’incontro tra chi produce e chi fruisce con reciproca intesa. Padiglioni immensi in cui è facile perdersi dietro le sollecitazioni scenografiche e le lunghissime gambe delle standiste. Ma basta poco per cogliere il succo del racconto. Le grandi case e i ricchi stanno al centro, assaggi un tocco di mortadella e lo senti subito chewingoso, sì, proprio così, e passi oltre. Lungo il perimetro la musica cambia con i piccoli produttori e consorzi regionali: c’è più curiosità, confezioni fai da te con nel packaging disegni del proprio figlio e profumi più intensi, dal lardo di Arnaud della val d’Aosta, al Culatello di Zibello e i salumi piacentini, i pecorini sardi, i formaggi di fossa cari a Scataglini e la mozzarella di bufala della Val di Sangro o le gelatine di vino Picolit o di Verduzzo a rinfrescare le papille o per abbinamenti con formaggi carni o patè.
Per finire, dopo sei-sette ore, un po’ di cioccolato fondente ed un caffè di qualità per il post coitum. Insomma hai capito una cosa: la ricerca di un qualcosa di nuovo che è soprattutto memoria di un sapore antico te la devi cercare nei piccolissimi produttori che per dividere le spese stanno insieme con altri produttori loro pari. Si va a naso o guardando negli occhi, o le cravatte improbabili, o il dialetto che, se non permette una propria lingua, permette una propria voce.
Si ritorna quindi alla poesia e ai "Peccati di gola" di Camillo Sbarbaro dei suoi "trucioli" dispersi, che faceva così: "Sì, confiteor, sono un goloso; ma un goloso che detesta i piatti che, a forza di salse e pimenti, non sai più di che consistano; come se mascherare i sapori che offre natura - i soli originali, inconfondibili e inimitabili - non fosse un sacrilegio che grida vendetta a Dio. Un goloso che, se pregia (ahi, troppo) quel diamante vegetale che è il tartufo, s’appaga anche (inorridite) d’una patata lessa, appene insaporita di sale grosso da cucina... E un martire, di conseguenza, in questi tempi che la gente mangia più solo con gli occhi e il piacere della tavola è diventato una mortificazione... Ah, anche per il buongustaio, navigare necesse est! e quanto rischioso, tra le trappole dei ristoranti di lusso, gli specchietti da allodole dei menù (ch’io chiamavo ai bei tempi ‘spartiti’)". Il piacere della parola, appunto.