Primo amore
Da una reale storia maledetta, il cosiddetto "cacciatore di anoressiche", il film di Matteo Garrone porta all'estremo una classica situazione di coppia, il desiderio di cambiare l'altro finanche negli aspetti fisici.
Marco Mariolini nel 1997 scrive un libro, "Il cacciatore di anoressiche", in cui confessa la sua malattia psichica: cerca partner di cui, quando le abbraccia, possa sentire lo scheletro. Mariolini con quella testimonianza dichiarava la sua incapacità a trattenere i propri istinti di fronte a donne di ogni età che fossero magre fino alla patologia. Un anno dopo la pubblicazione del libro-confessione, Marco Mariolini commette un omicidio. Uccide a Verbania la partner che lo aveva lasciato: si era finalmente ribellata alle sue imposizioni di digiuno pressoché assoluto. Il cacciatore di anoressiche è stato intervistato in carcere per un programma di Rai3, "Storie maledette". Chi ha avuto modo di sfiorarlo durante lo zapping, qualche anno fa, si sarà probabilmente fermato, catturato da questo uomo con mezza faccia barbuta e capelluta e mezza faccia rasata: la ricostruzione fatta da Mariolini della sua perversione è lucidissima e sconvolgente.
A questo caso incredibile di cronaca si è ispirato Matteo Garrone per il suo film "Primo amore". E’ interessante osservare come un "autore" (Matteo Garrone è uno dei registi italiani che nutrono più forti volontà stilistiche di autorialità) scelga di trattare - lo aveva già fatto per il precedente "L’imbalsamatore" - materiale già ricco proveniente dalla cronaca.
Il film parte da un appuntamento al buio alla stazione delle corriere di Vicenza. Vittorio e Sonia si incontrano. Vittorio, nonostante il fisico di Sonia sia già asciutto, le dice subito: "Ti pensavo più magra…" E’ l’inizio di una storia in cui il corpo di lei dovrà adeguarsi alla mente di lui. Nelle parole del regista, "il protagonista porta all’estremo delle situazioni che a chiunque è capitato di vivere. La domanda che mi sono posto è perché all’interno dei rapporti uomo-donna non si riesca a vincere il desiderio di cambiare l’altro, di intervenire anche sugli aspetti fisici di una persona. E’ un tema classico che riguarda ognuno di noi. In questa storia di plagio psicologico, dove i confini fra la vittima e il carnefice non sono mai chiari, mi interessava il progressivo, ineluttabile scivolamento verso la follia, nella quale resta inspiegabilmente coinvolta anche una persona che si ritiene normale. Lei non scappa, e io non do spiegazioni del perché lei rimanga impigliata in questo gioco".
Il film è girato in un territorio cinematografica mente vergine: la città e i dintorni di Vicenza. La
collocazione geografica pesa molto, soprattutto a ragione del forte accento veneto che caratterizza tutti i personaggi. Da metà film, diranno anche qualche frase in dialetto, come se la storia a un certo punto si rassegnasse a restituire a quella cadenza la lingua che le è propria.
I due attori protagonisti, Michela Cescon e Vitaliano Trevisan, sono entrambi al loro esordio cinematografico. Sembra l’ennesima conferma al detto di Orson Welles sugli italiani: tutti attori straordinari, tranne quelli che fanno cinema. Per Michela Cescon, che concede alla cinepresa un corpo sempre più magro, dopo questo film si apriranno molte strade. Vitaliano Trevisan - scrittore vicentino di successo che pubblica con Einaudi - interpreta invece il personaggio che è nella vita. Chi ha avuto modo di ascoltarlo dal vivo - a un reading o a una presentazione - avrà visto che fa fatica a parlare, si strascica, è introverso. In "Primo amore", fedele a se stesso, dà una prova di recitazione notevole e probabilmente irripetibile, sfruttando in pieno lo sdoganamento dell’accento veneto messo in atto da Marco Paolini.
La sceneggiatura poi - scritta dal regista con Trevisan e con Massimo Gaudioso - nel suo minimalismo fatto di banalità e niente da dire, di dialoghi malriusciti e smozzicati, riproduce, all’interno di una storia terribile, uno spaccato prezioso delle parti meno cinematografiche della "vita vera" al di fuori dai set cinematografici e televisivi.
La scelta stilistica portante è comunque quella di far svolgere a Vittorio la professione "vicentina" di orafo e di costringerlo di conseguenza a vivere in una casa-laboratorio-gabbia. La costruzione del racconto, quindi, è tutta giocata sul parallelo tra due tipi di raffinazioni, di prosciugamenti: l’alchimia della fusione e della trasformazione dell’oro e quella della modellazione del corpo femminile. E’ in queste sequenze puramente visive, estetiche, che Matteo Garrone dà sfogo alla sua bravura di cineasta. Ma tutto il film è fatto di evoluti piani sequenza (come quello finale, momento in cui la trama del film si allontana dal fatto di cronaca) e primi piani che isolano i personaggi dal contesto e sprofondano la storia sull’esclusiva ossessione di coppia. Alla fine, questo filtro registico risulta anche troppo forte, fino alla stilizzazione nelle dissolvenze in bianco sulla coppia che va in moto e nel fuori fuoco dei volti di Vittorio e Sonia in barca - sequenze nelle quali si sente in modo esagerato e non necessario la mano del regista.