Stampa e diffamazione
Il difficile equilibrio fra libertà di pensiero e rispetto dell’onore altrui.
Da molti anni a questa parte il reato di diffamazione a mezzo stampa è stato oggetto di numerose e contrastanti interpretazioni giurisprudenziali. Me ne sono già occupato su questa rivista commentando sentenze della Cassazione, anche a Sezioni Unite. Si va da decisioni "libertine" che concedono ai giornalisti la "licenza di uccidere", a decisioni retrive che praticamente imbavagliano la stampa, violando di fatto l’articolo 21 della Costituzione.
La ragione sta nel fatto che in questa delicata materia vengono a contrapporsi diritti di pari dignità: quello all’onore e quello di libertà di manifestazione del pensiero. L’articolo 21 della Costituzione afferma che "tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Ma anche l’onore, che è il capitale più prezioso di ogni persona, è costituzionalmente garantito. Lo tutelano in concreto la legge sulla stampa 8 febbraio 1948 n° 47, che segue appena di un mese l’entrata in vigore della Costituzione, e l’articolo 595 comma 3° del Codice Penale. Spesso non è facile trovare un punto di equilibrio tra gli opposti diritti, e da questa difficoltà nascono sentenze contrastanti.
Dopo una lunghissima gestazione, un progetto di riforma è approdato in questi giorni al Parlamento, che si accinge a cambiare le regole della diffamazione a mezzo stampa. Essendo la questione molto tecnica, mi limiterò ad alcune osservazioni generali. La prima è che il progetto risponde a molte esigenze, ma non a quella principale, come poi dirò.
Una prima proposta prevede che la richiesta di rettifica da parte del querelante, se prontamente pubblicata, sia considerata come condizione di procedibilità sia per l’azione penale che per quella civile. Se la proposta verrà approvata, vi sarà un drastico sfoltimento dei processi per diffamazione, e inoltre sarà garantita, attraverso la rettifica, la reale e immediata tutela dell’onore della persona offesa.
Una seconda proposta prevedeva addirittura l’inasprimento della pena detentiva, ma, in sede di Commissione, spariva per la protesta dell’Ordine dei giornalisti.
Personalmente lo considero un errore, perché accredita la tesi che la diffamazione sia un reato minore, quando invece può essere una lesione gravissima della persona e provocare danni enormi al diffamato, alla sua famiglia e anche ad eventuali aziende di sua proprietà. Condivido in questo senso l’opinione di Roberto Martinelli, responsabile giustizia dell’Ordine dei giornalisti (vedi Diritto e Giustizia, 22 novembre 2003, n° 41, pag. 14).
Il difetto più grave del progetto di legge in discussione è che non specifica i criteri che rendono applicabile la scriminante generale dell’articolo 51 del Codice Penale nei processi di diffamazione a mezzo stampa.
Il diritto di cronaca e quello di critica sono creazioni della giurisprudenza, ma talvolta il principio del libero convincimento del giudice produce brutti scherzi. Se è vero che la verità del fatto narrato, la continenza espositiva e l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia devono essere considerate cause di non punibilità, sarebbe quanto mai opportuno precisarne le regole, specie in materia di intervista (marchingegno attraverso cui passa ogni genere di diffamazione) e non lasciarle alla libera interpretazione del giudice.