Tre secoli di xilografia giapponese
Fino al 16 novembre a Palazzo Poggi a Bologna il fascino tutto orientale degli archetipi dei manga.
Dalla danza alle arte visive, dalla poesia all’architettura, l’arte orientale è sempre stata un qualcosa d’altro rispetto alle forme espressive occidentali. Un’idea di leggerezza, di apparente semplificazione, che ha indotto l’Occidente a subire il fascino di quest’estremità del mondo. Linguaggi opposti, che però nel corso della storia dell’arte non smisero mai d’incontrarsi, confrontarsi, talvolta copiarsi. Basti pensare al segreto alchemico della ceramica, carpito all’Oriente solo nel Settecento e dopo secoli d’inutili tentativi, o all’influenza che ebbero le stampe giapponesi sulle avanguardie dell’Ottocento, in particolare sulle personalità di Degas, Monet, Manet, Braquemond, Jossot, Toulouse-Lautrec e naturalmente Van Gogh.
La mostra che vi presentiamo documenta un’importante collezione di queste ultime, caratteristica espressione dell’immaginario giapponese lungo il corso di tre secoli, dalla fine del ‘600 alla metà del ‘900. La copiosa raccolta, della quale sono esposti un’ottantina di esemplari selezionati dalle circa 400 opere che la costituiscono, è una delle più importanti in Italia; composta in oltre 25 anni di ricerca da parte di Giuliano Bernati, cofondatore del Centro Studi d’Arte estremo-orientale, è destinata a breve a confluire nel già pregevole patrimonio artistico dell’Università di Bologna.
La xilografia, invenzione cinese, giunse in Giappone nell’VIII secolo, ma fino al Seicento rimase confinata negli impervi monasteri buddisti, ove veniva utilizzata per la composizione di testi sacri. Fu solo con la pacificazione del Giappone, dopo decenni di guerra civile per l’affermazione del potere, che questa particolare tecnica trovò funzione artistica. La classe dominante, costituita dai samurai, venne messa in secondo piano da una classe mercantile ed imprenditoriale che giunse alla ricchezza col nuovo fiorire dei commerci. Quest’ultima, desiderosa di adornarsi d’oggetti esteticamente gradevoli quanto simbolo d’opulenza, contribuì al rapido progredire di questo prodotto, la cui realizzazione divenne essa stessa una significativa attività commerciale. Così, se agli albori del XVIII secolo la stampa era ancora in bianco e nero e a una sola matrice lignea, in breve questi primi risultati furono acquerellati a mano, per poi venire direttamente impressi in più cromie attraverso molteplici matrici, una per colore.
Se essenziale era l’artista, non meno centrale fu la figura dell’editore, vero e proprio businessman che sceglieva i soggetti e le relative (spesso molto elevate) tirature, indagando il mercato e il suo continuo fluire di gusto. V’è poi da dire che la xilografia finale non era altro che il prodotto di un lungo e ben organizzato lavoro d’équipe: l’editore commissionava l’opera all’artista, che ne eseguiva il disegno s’un foglio di carta. Questo passava poi alla bottega dell’incisore, che, lavorando su tavole solitamente di ciliegio, ed affidando le parti marginali agli apprendisti, rendeva in rilievo le linee disegnate dall’artista. La matrice così incisa passava poi alla bottega dello stampatore, che, dopo aver fatto visionare delle prove in bianco e nero all’artista, su indicazioni di quest’ultimo eseguiva le tirature a colori, naturalmente uno per volta, iniziando dalle linee di contorno per poi passare ai colori più tenui, giungendo a realizzare anche 200 esemplari giornalieri.
Padre dell’ukiyo-e - così è chiamata in Giappone la xilografia, letteralmente "pitture del mondo fluttuante" - è considerato Hishikawa Moronobu (1618-1694), autore di raffinati album d’immagini a carattere per lo più erotico, mentre nel Settecento, età aurea dell’ukiyo-e, vanno per lo meno ricordati tre grandi artisti: Suzuki Harunobu, cantore della poesia del quotidiano, Torii Kiyonaga, che presenta un tipo femminile statuario e dall’elegante portamento (anche quando raffigura delle cortigiane), senza dimenticare Kitagawa Utamaro , anch’egli esploratore dell’universo femminile nelle più diverse situazioni, cogliendo ora l’aspetto quotidiano, lavorativo (in mostra un’opera della serie "Donne impegnate nella sericoltura") ora quello intimo, lascivo, del genere dello shunga, dal poetico quanto allusivo significato letterario di "immagini della primavera", spartanamente stampe erotiche, che spesso si confondono con la pornografia, se non fosse per l’allusivo, talvolta ironico testo che fumettisticamente accompagna le immagini, niente affatto volgare ed esplicito come accade in analoghi risultati occidentali.
La prima metà dell’Ottocento è invece segnata dai lavori di Katsushika Hokusai, il più noto artista orientale conosciuto in Occidente (Palazzo Reale a Milano nel 1999 ne ospitò una vasta, importante mostra), superbo paesaggista ma eccellente in tutti gli altri generi, dal mitologico all’erotico. Altro grande paesaggista presente è Utagawa Hiroshige (1797-1858), che assieme ad Hokusai fu il più apprezzato da impressionisti e post-impressionisti.
Il secondo Ottocento, dopo la restaurazione del potere imperiale nel 1868 e l’apertura alla modernizzazione occidentale, segnò il rapido declino dell’arte xilografica giapponese, che continuò comunque ad essere praticata da numerosi artisti, testimoniati anch’essi nel percorso espositivo.