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Drodesera e il teatro di ricerca: avanti così

Riuscita la scommessa del trasferimento di Drodesera alla Centrale di Fies: non più solo rassegna, ma anche luogo d'incontro tecnico e culturale. Dove si può fare il punto sul teatro di ricerca: e così si è visto che...

"Devi toglierti le scarpe e l’orologio. E anche le collanine se ne hai". Inizia con queste azioni assolutamente insolite "Edipo", spettacolo teatrale per una sola persona. Nella torre del castello di Drena lo spettatore inizia a salirne le scale, verso quella che sarà un’esperienza unica e personale.

Il Teatro del Lemming in "Inferno".

Incontro - mi si conceda la prima persona, per riferire un’esperienza soggettiva - figure femminili dolci, materne, appassionate, che mi abbracciano con calore; e figure maschili ostili, che mi parlano con asprezza, le labbra a un centimetro dal mio volto. Poi vengo bendato e perdo l’orientamento; devo salire ancora, sulle impervie scalette: mi affido all’aiuto delle giovani donne, che imparo a riconoscere nel buio e di cui, istintivamente, mi fido. Nelle orecchie mi risuonano le vicende di Edipo, ma sono poco più che suoni, sono preso dai rapporti con le presenze circostanti. Mi viene messo in mano quello che capisco essere un pugnale, e vengo spinto a vibrare un colpo: un tonfo sordo mi dice che è stato un colpo vero. A un’anguria, probabilmente, ma l’effetto rimane; tiro un sospiro di sollievo quando l’arma mi viene tolta di mano.

Più su vengo fatto sdraiare su una coperta. Due ragazze si coricano ai miei fianchi, e con dolce passione cominciano a coprirmi di carezze. Io corrispondo. Le voci attorno mi fanno capire che sto commettendo l’incesto. Non me ne curo.

Quando, dopo un tempo indefinito (35 minuti, scoprirò) riesco un po’ frastornato dalla torre, mi trovo a commentare l’esperienza con un signore colto e gentile: è il regista Massimo Munaro; lo prego di ringraziare da parte mia gli attori. Poi cerco un agritur, dove in solitudine poter rivivere e riflettere sulle mie sensazioni e reazioni.

L’Edipo del Teatro del Lemming esemplifica in maniera chiara seppur estrema (sei attori per uno spettatore non è un rapporto generalizzabile) la complessità e varietà dei percorsi del teatro di ricerca presentatici al festival di Dro di quest’estate. E il successo della manifestazione è dipeso anche dall’interesse che un pubblico non piccolo rivela per spettacoli tutt’altro che scontati. Era un piacere vedere centinaia di persone, con una bella quota di giovani, tutti mediamente competenti, creare ogni sera il tutto esaurito per spettacoli in cui, alla ricerca del nuovo che nasce, si rischia sempre il bidone. Insomma esiste un pubblico - e non di nicchia - che non si accontenta dello spettacolo affermato, cioè di quello passato attraverso i discussi vagli della grande critica e delle grandi organizzazioni culturali; ma gli preferisce il momento precedente: quello in cui si cercano nuovi percorsi espressivi, in cui si forma la nuova cultura, in un rapporto più stretto, simbiotico, tra il teatrante e lo spettatore.

Dro: ingresso serale alla Centrale di Fies.

E qui sta il maggior merito di Drodesera e della scommessa, che possiamo considerare vinta, del trasferimento alla Centrale di Fies. Perché nella Centrale, sempre più suggestiva, nell’adiacente parco, sempre meglio attrezzato, attori, registi, pubblico, critici, organizzatori di rassegne, hanno trovato un luogo dove incontrarsi, divertirsi, confrontarsi, formando per una decina di giorni una piccola comunità, e facendo, probabilmente tutti, uno o più passi avanti. Insomma al festival di Dro sta riuscendo quel salto che era stato, con qualche ottimismo, auspicato: non più solo rassegna di spettacoli, ma luogo di incontro tecnico (di mercato, tra domanda e offerta, organizzatori e produttori) e culturale; nell’ottica anche di fornire un quadro sullo "stato dell’arte" della ricerca nel teatro. E a tal fine si è rivelata proficua la scelta di presentare più lavori di uno stesso gruppo, per poter meglio individuare le evoluzioni, valutare più compiutamente pregi e limiti, vedere le esperienze che si aprono e quelle che si conchiudono.

E in effetti ne è uscito un quadro composito, che a nostro avviso trova la sua ricchezza proprio nel sovrapporsi di proposte variegate, e non necessariamente tutte entusiasmanti.

Abbiamo riferito del Teatro del Lemming con il suo Edipo. Che assieme ad altri tre lavori, a formare una tetralogia, ha ottimamente rappresentato in Italia il cosiddetto "teatro dei sensi", basato su una stretta interazione con lo spettatore. A Dro il Lemming, a segnare una svolta verso il ritorno a un rapporto più tradizionale con il pubblico, ha anche portato il suo ultimo lavoro, Inferno, che attraverso i testi di molteplici poeti e scrittori, intende presentare una rilettura attualizzata ed impegnata dell’Inferno dantesco. Il lavoro a nostro avviso ha evidenziato le grandi capacità espressive del Lemming (accentuate soprattutto nella seconda parte, con il pubblico portato a pochi centimetri dagli attori) che hanno permesso allo spettacolo di reggere agevolmente una durata insolita (oltre due ore); ma è in gran parte mancata l’interazione tra testi e azione scenica, e tra il tutto e il poema dantesco. Quello che andava in scena era spesso decisamente coinvolgente, ma non si capiva cosa avesse a spartire con i testi che contemporaneamente venivano recitati.

"Imparare è anche bruciare" del Teatro Valdoca.

Questo a noi pare un vicolo cieco per l’insieme del teatro di ricerca: la formula voce fuori campo + azione scenica che la illustra o vi funge da contrappunto, ci sembra non funzionare. Così è stato, sempre a Dro, per il Teatro Valdoca con il suo Imparare è anche bruciare, dove i pur bei testi di Mariangela Gualtieri, tranne in un unico esaltante momento, sembravano appiccicati alla solo rutilante azione scenica dei pur bravi giovanissimi attori (e difatti il pubblico, da metà spettacolo ha iniziato a sciamare via). E in fondo così è stato, l’anno scorso, anche per la compagnia dell’acclamato Pippo del Bono: attori bravissimi, eccezionali, anche se magari prelevati dalla strada o dall’ospedale psichiatrico, un merito storico indiscusso, nell’aver mostrato come si può superare l’handicap utilizzandolo come fonte di una straordinaria capacità espressiva; eppure il tutto schiacciato dall’inutile enfasi della voce fuori campo ma a tutto volume dello stesso Del Bono, recitante debordanti, scontatissimi sermoni.

Davide Enia.

Più convincenti invece le altre esperienze. Non tanto i Motus (inconsistente lo Splendid’s al Grand Hotel Trento, buona solo l’idea; più intrigante Twin Rooms, una storia rappresentata sulla scena e parallelamente ripresa come una telenovela e proiettata su maxischermi sovrastanti). Ci riferiamo piuttosto al giovane narratore Davide Enia, che abbiamo visto in Italia-Brasile 3-2: una grande capacità di presentare una vicenda con la sola voce, alla Marco Paolini: capacità che diventa magica quando si distacca dalla più facile narrazione sportivo-folkloristica, per affrontare, con accenti sia epici che lirici, quella storica, civilmente impegnata.

"Carnezzeria" della compagnia Sud Costa Occidentale.

E soprattutto hanno pienamente convinto i palermitani della Sud Costa Occidentale. Un teatro-danza in siciliano strettissimo, basato tutto sulla comunicatività della mimica e dell’azione scenica; un’allegria travolgente, sia quando è autentica, e tratta con levità, in m’Palermu, le dinamiche interne a una famiglia siciliana; sia quando è solo una maschera euforica tesa a dissimulare, sempre della famiglia, le sconvolgenti violenze (in Carnezzeria, crudissima storia di stupri domestici e dei loro tragici esiti).

Questo è il nostro teatro di ricerca. E questo è stato Drodesera 2003.

Avanti così.