“In terra non c’è il paradiso”
Marcello Flores. In Terra non c'è il Paradiso. Il racconto del comunismo. Baldini & Castroldi 1998 pp. 320 £ 28.000
Fra il 1917 e il 1989 si racchiude, fondamentalmente, la storia del comunismo, che ha segnato di sé il Novecento nel mondo. Il comunismo si è proposto, dal punto di vista economico, come l'alternativa al mercato, e dal punto di vista politico come l'alternativa alla democrazia. Esso si è presentato sotto la forma della rivoluzione, del regime, del movimento, del mito: perché e come realtà tanto diverse sono state definite con lo stesso nome, e quali le ragioni del successo e del fallimento, sono le domande a cui cerca di rispondere questo racconto per i giovani dello storico Marcelle Flores, docente all'Università di Siena. Il comunismo è prefigurato da Marx come il regno della libertà e dell'eguaglianza, che succederà alla società borghese capitali sta, attraverso una fase proletaria e socialista. Succederà: come destino necessario, secondo una visione deterministica della storia, o come risultato della volontà, morale e politica, della costruzione libera degli uomini? Se Marx cercò di sottrarsi alla coercizione di questo dilemma, non così fecero i suoi seguaci.
La spiegazione più convincente del successo della rivoluzione bolscevica, voluta da Lenin, sta nelle condizioni create dalla prima guerra mondiale: sconfitte, morti, fame predispongono i contadini russi alla rivoluzione. Ma la guerra costituisce soprattutto, sul piano psicologico e ideale, "un mondo di svolta, di cambiamento, di perdita di certezze, di paure e di ricerca di nuove verità". Sulla Russia del 1917, e sul regime staliniano conseguitene, Marcelle Flores mette alla prova la sua tesi di fondo: il comunismo è una "religione della storia", che promette il paradiso in questa terra e non nell'aldilà, e la sua Chiesa è il partito. Dogmi, gerarchie, sacerdoti, pontefici, martiri, eretici, rituali, scomuniche, processi, condanne, stermini e guerre ne sono le componenti irrinunciabili.
"Il comunismo non era iscritto necessariamente nella dottrina marxista, non più di quanto la Chiesa cattolica fosse iscritta nel Vangelo." Furono gli inferni, prima della grande guerra, poi del fascismo, del nazismo, e della seconda guerra mondiale, in cui il mondo precipitò per l'incapacità dei governi a democrazia liberale di garantire pace, sviluppo, rappresentanza, a infondere nelle masse speranza e certezza nel paradiso comunista, al di là del tempo, dei sacrifici, delle tragedie necessari al suo raggiungimento.
Marcello Flores ripercorre la storia politica attraverso le grandi figure del comunismo, da Lenin a Stalin, da Mao Zedong a Gorbaciov, da Gramsci a Ho Chi Minh, da Dubcek a Castro, da Rosa Luxemburg a Poi Pot.
Ma particolarmente significative mi sembrano altre vicende, meno note, ma solo apparentemente minori. Come quella di Fred Beai, operaio comunista americano, condannato in patria a vent'anni di prigione, che si rifugia ne 1928 in Urss per partecipare alla costruzione del socialismo: chi scopre l'oppressione staliniana chiede di tornare negli Usa, dove arriva in un momento in cui dilaga, negli ambienti operai e democratici, un coro di elogi per le conquiste economiche del comunismo sovietico, contrapposte ai drammi provocati dalla "grande crisi" de capitalismo. Beai è costretto così a vivere incompreso, a trascinare una vita "del tutto fuori fase".
Anche l'intellettuale francesi Edgar Morin conosce i crimini staliniani, ma essi si dissolvono de giganteschi massacri della seconda guerra mondiale: l'Urss appare come il bastione antinazista, partecipare alla Resistenza diventata un obbligo morale, e anche lo stalinismo può essere amato, perché annuncia la fine della guerra e la fratellanza universale. "Ero uno di quegli adolescenti per i quali diventare comunista significava nello stesso tempo diventare uomini", racconta nella sua "Autocritica".
Per questo anche Ignazio Silone, quando negli anni '30 scopre la degenerazione tirannica dell'Internazionale comunista, si sente costretto all'abbandono, ma afferma che "l'uscita dal Partito Comunista fu per me una data assai triste, un grave lutto, il lutto della mia gioventù ".
Negli stessi anni invece Arthur Koestler entra nel Partito comunista tedesco, e così ricorda quella scelta: "Essere attratti dalla nuova fede era, ancora oggi lo credo, un encomiabile errore. Sbagliavamo per ragioni giuste;... coloro che schernivano la rivoluzione russa dall'inizio lo fecero per ragioni meno onorevoli del nostro errore ". Questo impasto di contraddizioni fa sì che ancora oggi quando, prima di insegnare l'unità didattica sul comunismo, domando ai miei studenti diciottenni un preliminare giudizio sul fenomeno, essi si dividono: all'incirca i due terzi lo associano a oppressione, un terzo a liberazione.
E' negli anni Settanta che la modernizzazione a livello mondiale sblocca l'arroccamento, favorisce nel comunismo le correnti più aperte, fino alla dissoluzione: il mercato e la democrazia, i demoni di un tempo, sono riconosciuti, nei loro limiti e nei loro rischi, come il terreno d'azione politica anche dagli exfedeli del comunismo. E la storia si rimette faticosamente in moto, su nuove strade.
Trovo uno squilibrio quantitativo in un volume scritto per i lettori italiani: la parte dedicata al comunismo nazionale è ridotta, tanto che a fronte delle undici citazioni di Bucharin e delle sette di Kamenev, Antonio Gramsci è nominato solo due volte, e una Enrico Beriinguer.
Ma, conclusa la lettura, rimane l'interrogativo se la tesi del comunismo come religione e del partito come chiesa risulta, oltre che brillante, convincente. Se è la crescente modemizzazione dell'economia e delle società a livello mondiale la causa del fallimento del progetto comunista come "società perfetta", quanto afferra e spiega, di un fenomeno politico ed economico, l'analogia religiosa fondata su categorie teologiche premoderne? E' la fede cristiana un progetto di società, e la Chiesa ne è il partito? La modernità ha dissolto non solo il totalitarismo comunista ma, attraverso la secolarizzazione, anche la Chiesa come modello di "società perfetta": il Concilio Vaticano II, e prima la teologia più avvertita di Karl Barth e Dietrich Bonhoeffer ne hanno preso atto. Che nel ventre della società sopravvivevano comportamenti e nostalgie corposamente premodemi non inficia, mi pare, l'acquisizione teorica.
I due fenomeni vanno quindi, forse, studiati nel loro intreccio, piuttosto che spiegati come uno la metafora dell'altro.
Le storie, le testimonianze, le invettive e le autocritiche raccontate nel libro, sono comunque capaci di dar conto anche delle tante esperienze diverse, vissute da molti di noi. C'è un filo che congiunge chi è stato comunista, chi ha dialogato e collaborato con i comunisti senza diventarlo, chi, senza disprezzarli, li ha combattuti perché ha capito prima l'errore: esperienze limitate ma tutte utili, nella loro parzialità, al grande fiume della storia. Esclusi sembrano essere quelli che accarezzano ancora l'utopia pericolosa, e quelli che, cinicamente, sono del tutto incapaci di riconoscerle un qualche valore.