Co.co.co. E articolo 18
Si continua a chiamare lavoro atipico, spesso anche parasubordinato, oppure collaborazione coordinata e continuativa. Sono tutti nomi che aiutano a identificare una forma di lavoro che ha la caratteristica di non essere né subordinato né autonomo. Si tratta, semplificando, di una forma di collaborazione svolta sotto l’indirizzo e il controllo di un committente, che s’inserisce in un programma aziendale, senza però rendere necessaria una presenza e un rapporto stabile all’interno dell’organizzazione (pubblica o privata che sia).
I lavoratori che stipulano questa forma di contratto sono tenuti al versamento all’Inps di un contributo del 12% sui redditi di lavoro, per chi non è iscritto ad altre forme di previdenza obbligatoria. Una quota, questa, che si rivela del tutto insufficiente al fine di garantire in futuro adeguate prestazioni pensionistiche.
Questo contratto, per il resto, non ha di atipico né l’eccezionalità né la scarsa frequenza con cui viene stipulato, visto che dalle ultime rilevazioni Inps risulta che nella gestione speciale a loro riservata sono iscritti circa un milione e mezzo di persone.
E’ un mondo vario, fatto di giovani e giovanissimi alle prime esperienze di lavoro, ma anche di ultraquarantenni. Tali lavori sono tendenzialmente prevalenti nel settore dei servizi, in quelli tradizionali e nei campi dell’informatica, della comunicazione e dell’industria culturale. Molto spesso si avvalgono di tale forma di contratto anche gli enti pubblici. In provincia di Trento i lavoratori atipici sono ormai più di 16.000, con circa 6.000 ditte committenti.
I collaboratori coordinati e continuativi si trovano molto spesso a svolgere all’interno della stessa azienda o ente pubblico che sia, funzioni analoghe, se non talvolta uguali, ai lavoratori dipendenti, senza però essere rappresentati e tutelati da nessuno e subendo rispetto a questi ultimi una serie di discriminazioni, quali la mancanza di contrattualità nei confronti del datore di lavoro che fissa i compensi in assoluta libertà, senza riferimento ad alcuna normativa, e ponendo di fatto la controparte in una condizione di estrema debolezza e solitudine, la mancanza di diritti in caso di malattia o di infortunio, maternità, e ferie, l’incertezza sui tempi di pagamento, sui rimborsi spese, sui motivi che possono giustificare la cessazione anticipata del rapporto, l’assenza di indennità di fine rapporto, il mancato riconoscimento del lavoro svolto al fine del punteggio nei concorsi pubblici, e molte altre piccole discriminazioni che sarebbe troppo lungo elencare.
In particolare, per ciò che riguarda la situazione trentina: il fondo regionale per la previdenza integrativa non è fruibile dai lavoratori atipici, non ha diritto all’abbonamento ai trasporti pubblici ad uso dei lavoratori, non ha diritto all’uso delle mense aziendali o, se lavora per la Provincia o per altro ente che lo preveda, non ha diritto ai buoni pasto.
Con ogni probabilità si andrà a votare tra qualche mese per dire sì o no all’estensione delle tutele previste dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Senza entrare nel merito della questione, che è complessa e delicata, mi chiedo se i proponenti del referendum, Rifondazione Comunista, la CGIL, i Verdi (sic), vorranno spiegare che ne sarà della pletora dei co.co.co. Persone escluse da ogni forma di tutela, perché dovrebbero recarsi alle urne e votare a favore dell’iniziativa referendaria? Per puro spirito di altruismo?